Il Cinquecento: la svolta realistica del Rinascimento. La lettera a Francesco Vettori di Niccolò Machiavelli: una visione moderna e senza sovrastrutture della realtà e della vita umana

Il Rinascimento si basa su un atteggiamento intellettuale di opposizione alla mentalità medievale. La classicità rappresenta la dimensione suprema del pensiero e delle manifestazioni artistiche e culturali alle quali ispirarsi. L’atteggiamento dell’uomo è quello di rivolgersi al passato per imitarlo, convinto dell’impossibilità di oltrepassare la perfezione dell’arte e della letteratura degli antichi.

La visione del mondo che l’umanità in epoca rinascimentale elabora è quella che si basa sul raggiungimento di un equilibrio spirituale e di un ordine intellettuale che danno la misura di un controllo possibile e dovuto da parte dell’uomo sulla realtà che lo circonda, nella convinzione che le potenzialità intrinseche possedute dall’umanità siano tali da fornire al mondo delle regole commisurate al volere creativo di cui l’uomo è capace.

I modelli comportamentali e le ideologie alla base della vita degli uomini si improntano sulla dimensione della corte, centro di vita politica e culturale nel Cinquecento. E il tipo di civiltà che si ricava dalla centralità delle corti è quello che esalta gli ideali dell’edonismo. La raffinatezza, cioè, la grazia e l’armonia sono le qualità e la misura di un piacere sublime che ha ragion d’essere nella prospettiva esistenziale di una vita orientata al raggiungimento della pace e dell’equilibrio.

Fenomeno che si conferma e si rafforza nel Cinquecento è quello del mecenatismo. La cortigianeria inizialmente si accorda con gli slanci più sinceri della tendenza a privilegiare la dimensione artistica e la bellezza al centro della vita. Ben presto però i circoli intellettuali si rivelano sempre più una struttura molto debole all’interno della civiltà, a causa della precarietà sempre più evidente delle relazioni coi principi, minate dall’instabilità dei rapporti di protezione e dalla qualità delle opere, votate a soddisfare sempre più il carattere celebrativo delle richieste dei signori.

La dimensione della corte si configura nel tempo come un ambito chiuso, elitario ed aristocratico, progressivamente non in linea con le esigenze di un pubblico sempre più colto e in grado di approcciarsi alla lettura grazie anche all’invenzione della stampa. In alternativa rispetto agli ambiti cortigiani si viene, nel corso del tempo, a qualificare come attiva nell’ambito dell’editoria la figura dell’intellettuale indipendente, che non risponde più alle richieste di un committente e che, invece, viene incontro ai gusti propri e del pubblico.

Di fatto, sul piano degli eventi storici, il Cinquecento si apre in maniera negativa. Non sono pochi gli elementi di novità rispetto al secolo precedente che rivoluzionano gli equilibri e che mettono fine al periodo di pace e di stabilità invero molto precaria in cui l’Italia si era ritrovata. È l’improvviso riproporsi di esigenze mosse dal proposito di adeguarsi agli sviluppi economici che determina una situazione di crisi.

La morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492 rappresenta un fatto che cambia definitivamente gli scenari di un’Italia che aveva goduto della capacità di rimanere indipendente e di resistere ai tentativi di conquista straniera. Francia, Spagna e Austria rivolgono il loro interesse alla nostra penisola in quanto terra su cui imporre la propria egemonia politico-economica.

Prima Carlo VIII, quindi, con la sottomissione di Milano, di Firenze e del Regno di Napoli, poi il re Luigi XII con la conquista del Ducato di Milano, che avviene nel 1500, danno la misura della subordinazione dell’Italia alla Francia. Poi la discesa delle truppe mercenarie dei lanzichenecchi al servizio del re di Spagna Carlo V con l’incendio e il saccheggio di Roma, e quindi la contesa del 1530 tra Francia e Spagna per il predominio su tutta l’Italia, risoltasi con l’incoronazione di Carlo V a imperatore e re d’Italia, proprio da parte del pontefice Clemente VII, rappresentano gli episodi principali di una gravissima decadenza i cui risultati drammatici si perpetueranno per quasi due secoli.

D’altro canto Svizzera e Germania si presentano come delle realtà socio-politiche caratterizzate da una grande compattezza delle comunità di popoli che ci vivono, forti di tradizioni civili e di un carattere guerriero, che invece manca in Italia, consolidatosi nel richiamo a un passato che si ispira ai tempi della Roma repubblicana. Agli occhi degli intellettuali del tempo, questa realtà imperiale, sotto la guida di Massimiliano d’Asburgo, appare un esempio virtuoso di stabilità politica e di coesione sociale.

In un quadro siffatto, a un certo punto, nello spirito italiano entra qualcosa che guasta la sua integrità originaria. Lo spirito italiano, quello che impronta di sé la nostra tradizione letteraria delle Origini e che caratterizza la storia lungo la quale si sviluppa e si modula, attorno a un’istanza comune, l’insieme delle manifestazioni e dei documenti artistici del nostro passato, ha nella tematica amorosa, da una parte, e in quella religiosa, dall’altra, i due fulcri che fanno da nuclei cardine della produzione.

Il carattere del Medioevo è la trascendenza, un “di là” oltre l’umano e oltre il naturale, che si realizza al di fuori della natura e al di fuori dell’uomo. Nel Medioevo lo scopo della vita lo si intende raggiungibile nel rifiuto del corpo e del mondo. Alla base di questa teologia filosofica è l’esistenza degli universali.

In un determinato momento della Storia, però, la vita quaggiù acquista serietà e centralità a prescindere da quella prospettiva ascetica che, invece, la sviliva. Prima il sentimento era visto come peccato. Si configurava un conflitto esistenziale tra senso e ragione, in perpetua lotta tra loro.

La cultura medievale tradizionalmente intende il sentimento come una condizione umana da rifiutare. Reietto come senso e costretto a essere ragione, strappato dal cuore umano, fatto divenire fatto esteriore, simbolico, scolastico o platonico, il sentimento viene semmai rivalutato come fatto filosofico, unità di intelletto e di atto.

L’origine della lirica platonica italiana è questa. Dalla Scuola Poetica Siciliana al Petrarca gli slanci sentimentali e le proiezioni dell’immaginazione del poeta, colti nella loro naturalezza e nella loro semplicità, sono vietati. La configurazione ideale dell’esistenza è teocentrica e la validità della vita trova ragion d’essere al di fuori della vita stessa. Petrarca è l’uomo e il letterato che prova più di tutti il gusto di questo frutto proibito.

Ma proprio secondo l’esempio eccellente e contraddittorio di Petrarca, l’individuo torna a essere uomo in tutte le sue specificità. Se prima il modello eroico dell’umanità è quello che si incentra sulla dimensione dello spirito e rifugge dalla materialità e dal piacere delle cose, man mano l’irresistibile attrazione della contingenza diventa sempre più irrinunciabile nell’affascinante squilibrio esistenziale in cui si inquadra la continua tensione tra l’essere e il voler essere.

Umanizzare il mondo comporta anche un diverso inquadramento delle virtù umane, sempre più legate alla sfera laica e materiale e sempre meno divine. Da Petrarca a Boccaccio questo processo di umanizzazione si stende proseguendo fino al Cinquecento e incontra l’intellettuale che si fa cosciente in maniera chiara e consapevole della via profana e laica della conquista della civiltà.

Niccolò Machiavelli è lo studioso, l’intellettuale, il pensatore e l’uomo d’azione che dimostra di aver raggiunto una maturità tale da consentirgli una consapevolezza senza sovrastrutture della vita umana, colta all’interno dei confini del contingente e della temporalità.

L’Italia è una realtà in cui si è già sviluppato un senso identitario nutrito dall’orgoglio di possedere una tradizione culturale e letteraria di livello irraggiungibile, nei cui confronti le realtà d’oltralpe sono barbare.

Machiavelli rivolge uno sguardo critico sulla grandezza italica e ne dà un resoconto ribaltato, soppesando gli elementi di contraddizione di una civiltà grande solo teoricamente, votata al recupero di un passato latino eccellente e invero corrottissima.

Chi ambisce al dominio sull’Italia, cioè i conquistatoti stranieri, mostra un approccio colmo di meraviglia di fronte alle bellissime città italiane e ai segni dell’ingegno italiano. L’Italia, però, si inchina ai suoi dominatori, quasi come successe alla Grecia antica che veniva studiata dai Romani i quali, tuttavia, non lesinarono di conquistarla.

La vita degli uomini italiani è malsana sul piano etico-morale, tutt’altro che improntata alla sanità. La corruzione dei costumi condiziona l’agire pratico della società e della popolazione degli Stati italiani. Le licenze morali del clero, soprattutto, sono la causa principale di questa corruzione e, agli occhi e alla mente integerrima di Machiavelli, questa corruzione appare inaccettabile.

Nel 1513 Machiavelli si trova confinato in Val di Pesa, all’Albergaccio, sua casa di campagna fuori da Firenze, dopo che i Medici sono tornati a governare la Città e hanno deciso, momentaneamente, di escluderlo dalla partecipazione diretta alla politica, svilendo il suo bisogno di intervenire concretamente nella vita attiva della Città e della Repubblica.

È del giorno 10 del mese di dicembre di quell’anno la lettera che lo scrittore invia a Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la Santa Sede. In questo celeberrimo scritto Machiavelli fornisce indicazioni preziosissime per capirne il pensiero, attraverso spunti autobiografici utili a decifrare il suo impegno profuso quotidianamente in un’ottica votata al riscatto dall’avvilimento della vita vuota che in quel periodo egli è costretto a condurre.

Un pessimismo disincantato, ma ironico, detta la sua visione amara della natura umana. Dalla concreta esperienza delle cose Machiavelli ricava insegnamenti che si fanno leggi generali. Egli si congratula con l’amico per l’incarico di ambasciatore che questi sta attualmente svolgendo rincuorandolo ed esortandolo a continuare così, cioè a dedicarsi in pieno al perseguimento dei propri interessi e dei propri affari: «[…] chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quello non gli è saputo grado» dice Machiavelli, ricavando un’indicazione di massima dall’esperienza che, è evidente, anch’egli ha diverse volte fatto.

Nella pratica, cioè, non si ottiene alcuna gratitudine quando si sacrifica se stessi in virtù di un altruismo del quale non si verrà ripagati. Non è ravvisabile alcun sostegno a un atteggiamento egoistico e avaro di bontà in questa esortazione proposta dal Nostro, ma piuttosto è possibile individuarne il senso più profondo nella misura in cui si faccia riferimento a uno dei motivi centrali nella riflessione machiavelliana, quello cioè del concetto di “fortuna”.

La Fortuna offre “occasioni”, cioè struttura gli eventi pratici in modo da mettere l’uomo di valore nelle condizioni di scegliere se agire o no. L’atteggiamento da intraprendere deve essere quello di chi sappia aspettare il momento giusto valutando, volta per volta, come atteggiarsi, se intervenire in maniera pratica o, piuttosto, ridursi a una momentanea rinuncia all’azione.

Ci sono fasi storiche particolarmente sfavorevoli durante le quali la Fortuna “vuol fare ogni cosa”, cioè in cui sembra che tutto vada storto. In queste circostanze non è opportuno prendere di petto le situazioni ma bisogna temporeggiare e attendere che, invece, si presenti l’occasione propizia per intervenire con un’azione pratica.

Non si tratta certo di un proposito, questo, dettato da uno stato d’animo calmo e bonario. Machiavelli, al contrario, è colmo di rabbia e di amarezza. Cocente è l’effetto di delusione che egli prova e il senso di impotenza determinati dalla sua forzata lontananza dagli affari dello Stato.

Stare a casa gli pesa, occuparsi di attività futili lo svilisce. Alla sera, però, Machiavelli torna ad agire in funzione del suo futuro riscatto. E lo fa attraverso lo studio degli autori classici e attraverso la lettura dei testi del passato.

Ritemprare l’anima grazie al sostegno che gli forniscono i grandi esempi della nostra straordinaria tradizione letteraria mette lo scrittore fiorentino nelle condizioni di prepararsi mentalmente a quella che necessariamente dovrà essere una successiva riconquista della vita in maniera autentica, quando si ripresenteranno cioè le condizioni pratiche per tornare ad agire.

Eppure Machiavelli non riesce a star fermo neanche in tempi in cui non è consentito agire. Egli non manca di osservare criticamente la gente, e rivolge la sua attenzione specialmente alle persone di più bassa estrazione sociale. La curiosità lo spinge a indagare il comportamento degli uomini persino all’interno di un’osteria di campagna, dove incontra individui dei quali egli studia gli atteggiamenti, le abitudini e la gestualità.

Ciò che lo muove è la convinzione che la natura umana sia uguale ovunque e che da queste osservazioni egli ne otterrà sempre utili indicazioni da rielaborare per ricavare dall’esperienza una vera e propria scienza dell’agire dell’uomo.

Toccare con mano la viltà degradata del fondo dell’umanità è una provocazione nei confronti della Fortuna stessa, quasi a sfidarla di reagire e a spingerla a fornire davvero quelle nuove occasioni affinché gli uomini di valore, quelli che meriterebbero di essere ai posti di guida e di comando della realtà, possano dimostrarlo questo loro valore, scacciando via la barbarie volgare con eroico impeto e determinazione.

È una fase articolata e dignitosamente condotta, nella vita di Machiavelli, di preparazione alla rivolta, quella che la lettera al Vettori mette in luce. Ed è proprio in questa circostanza di momentanea inattività che nasce, attraverso studio e considerazioni siffatte, la redazione del Principe, il cui senso è proprio quello di non essere esclusivamente un’opera di speculazione teorica.

Questa è una fase della vita di Machiavelli (e potremmo prenderla come esempio per fornire una proposta valida per tutti coloro i quali, oggi, intendano atteggiarsi anch’essi a una rinascita) nella quale egli si pone nelle condizioni per effettuare sapientemente una valida distinzione tra vantaggi e svantaggi delle azioni da compiere o da evitare, attraverso un’acuta analisi della “verità effettuale della cosa”.

Lungo il corso dello sviluppo della lettera il freddo ragionare di Machiavelli si alterna a fasi in cui, invece, esce prepotentemente fuori tutta la sua passione e l’anelito vibrante ad agire:

“Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassero adoperare, se dovessino cominciare a farmi sventolare un sasso […] e dovrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienza” scrive Machiavelli nella fase conclusiva della lettera, e poi confessa con sincerità: “E della fede mia non dovrebbero dubitare, perché havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia”.

4 commenti su “Il Cinquecento: la svolta realistica del Rinascimento. La lettera a Francesco Vettori di Niccolò Machiavelli: una visione moderna e senza sovrastrutture della realtà e della vita umana

    1. Grazie Angelo. Esatto! È proprio stupefacente il modo in cui è in grado di venirci in aiuto Machiavelli. Anche in uno scritto con una forte connotazione soggettiva e intima, come appunto un testo epistolare, Machiavelli risulta esemplare e il suo insegnamento appare illuminante agli occhi di uomini come noi alla ricerca, come lui, di una sostanza stabile nell’esistenza. Si approfondirà ulteriormente la centralità della testimonianza di Machiavelli in queste settimane.

    1. Grazie a te Stefania. La trattazione del pensiero di Machiavelli risulta centrale nella prospettiva ideologica della Casa della Civiltà. Anche la sua famosa “Lettera a Francesco Vettori” contiene spunti che fanno apparire l’uomo Machiavelli come l’incarnazione del tipo ideale a cui ispirarci.

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