Tornati a bordo della Maharousa dopo la lunghissima intensa mattinata, entrando in cabina ho sobbalzato: c’era un tizio sdraiato sul “mio” letto con il “mio” pigiama. Aveva un aria indolente, decisamente beffarda, provocatoria. Che ci faceva lì? Infine ho afferrato: un altro scherzo del cameriere burlone. Con che abilità aveva riempito il pigiama di asciugamani per farlo sembrare un essere umano! Il suo estro non smetteva di stupirmi.
Dopo il ritorno da Abu Simbel, che aveva comportato l’interminabile scarrozzata attraverso il deserto, la giornata non era finita. Nessuna pausa, se non un pranzo veloce, perché la tabella di marcia comportava nel pomeriggio un giro in feluca.
Assuan, città moderna, pulsante di traffici e commerci, valorizzata e resa particolarmente animata dalla presenza della famosa diga, è situata sulla sponda orientale di un tratto di fiume articolatissimo, costellato di isole maggiori, isole minori, isolotti e scogli affioranti, un vero e proprio arcipelago. La feluca, la barca classica del Nilo, domina incontrastata, essendo la più adatta a navigare districandosi sicura nel dedalo dei canali che si intersecano fra quella miriade di terre emerse. Vagare in quel paesaggio è un’esperienza unica.
Siamo saliti a bordo con l’aspettativa di scolaretti in vacanza. La vela triangolare che svettava sopra le nostre teste era decisamente immensa, alta almeno tre volte la lunghezza dello scafo. In feluca i passeggeri prendono posto sui bordi e su un cassero minore, mentre un altro più ampio è lasciato sgombro per funzioni diverse.
Dall’imbarcadero la vista si apriva su una baia vasta quanto un golfo di mare. Le vele delle feluche, gonfiate dalla brezza, navigavano sulla superficie del Nilo appena increspata, incrociando piccoli battelli decorati con disegni pittoreschi che davano un tocco oleografico all’insieme. Assuan, nonostante sia ubicata parecchi chilometri a sud del delta, è stata da sempre meta di villeggiatura, apprezzata per il suo clima mite, e la navigazione per diporto ha sempre fatto parte del “pacchetto turistico”. Sullo sfondo del panorama verso la città si profilavano le sagome poderose degli alberghi, capaci di ospitare migliaia di turisti.
Mentre navigavamo rapiti dalle novità dell’ambiente, commentando a bassa voce, timorosi di rompere l’atmosfera, siamo stati colti di sorpresa da un’esplosione di voci. Due bambini, avvicinatisi in silenzio a bordo di un barchino, si erano accostati alla feluca con l’aria di pirati pronti all’abbordaggio, per prorompere in un coro di canzoni italiane: il repertorio comprendeva ‘O sole mio e Bella ciao. Era divertente l’entusiasmo di quegli scugnizzi intraprendenti che si guadagnavano qualche spicciolo movimentando la navigazione ai turisti. Ricevute le debite mance, si sono allontanati fra i saluti e le grida dei passeggeri, preparandosi ad abbordare altre feluche cariche di stranieri, pronti a intonare canzoni appropriate ad altre nazionalità.
Una volta lasciato l’ampio bacino animato dai natanti, a ennesima conferma che ovunque in questo paese tutt’intorno ai centri abitati c’è il deserto, alla nostra destra, ossia a occidente, è apparso un alto colle sabbioso, completamente arido, in cima al quale si profilava la sagoma merlata di un edificio in granito rosa coronato da una cupola. Era il mausoleo dell’Aga Khan III, il nonno dell’Aga Khan valorizzatore della Costa Smeralda, capo supremo della setta ismailita degli Sciiti, un ramo dell’islam indiano. Il capo religioso amava trascorrere la villeggiatura ad Assuan e dato che in tarda età dal clima mite della contrada aveva tratto gran giovamento per i suoi malanni, volle essere sepolto in cima alla collina, alle cui pendici si scorgeva la sontuosa villa dove era solito soggiornare. Quando morì nel 1957 fu accolto nel mausoleo dove il suo corpo riposa in una tomba di marmo di Carrara.
La zona che andavamo esplorando era carica di suggestioni storiche. Nomi emblematici, evocativi dell’antico Egitto, come l’isola di Elefantina, si materializzavano nel panorama della baia che via via andava scorrendo mentre scivolavamo sulle acque tranquille. Abbiamo bordeggiato per un bel tratto lungo quell’isola che si allunga per un chilometro e mezzo, fronteggiando il quartiere meridionale di Assuan. Pare che il nome derivi dalla sagoma delle sue rocce, macigni tondeggianti di granito grigio, simili ai dorsi degli elefanti. Un’altra ipotesi sostiene che esso sia dovuto alla forma allungata e curva che ricorderebbe le zanne dei pachidermi.
Oltre la collina dell’Aga Khan, unica altura a sovrastare i dintorni, le isole mostravano un profilo piatto. In certune si affacciavano case graziose, lontane dallo standard degli altri centri abitati che ho descritto. Denotavano un uso soprattutto turistico. Residenze di villeggiatura e alberghi, fra cui spiccava la massiccia torre quadrata dell’hotel Mövenpick, si susseguivano lungo le sponde di Elefantina.
Sul lato opposto si profilavano i muraglioni che circondavano l’isola dell’Orto Botanico, da cui spuntavano ciuffi di vegetazione. Era stata una creazione del generale inglese Kitchener, che aveva pensato di raccogliere in quel luogo piante rare tropicali, ben 800 specie africane e asiatiche che, dato il clima favorevole, si erano ambientate magnificamente.
Al tramonto siamo tornati alla base. Alla base della scalinata che scendeva al molo mi sono imbattuta in due fanciulle simpatiche che mi sorridevano con chiari gesti di simpatia. Ho tentato di avviare una conversazione in inglese, ma purtroppo non lo conoscevano. E’ stata quindi una comunicazione muta la nostra, come succede a volte fra individui che, pur lontanissimi per lingua e costumi, riescono a trovare canali alternativi per manifestare la simpatia reciproca. Quando gli ho chiesto se mi permettevano di scattare dei selfie per ricordare il nostro incontro, hanno acconsentito di buon grado.
La serata non è finita lì. Il dopo cena è stato animato da uno spettacolo nubiano. Genti in costume hanno suonato e danzato coinvolgendoci nel vortice della festa.
Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – capitolo 23 (continua)