Oltre la prima sala ipostila del tempio di Abu Simbel si apriva un altro ambiente dove si levavano quatto pilastri ricoperti di iscrizioni e bassorilievi. Alle pareti erano rappresentate le consuete scene di offerte dei sovrani alle divinità. Ramsete II e Nefertari portavano incenso e doni vari alla barca di Amon, utilizzata dai sacerdoti nelle processioni in suo onore.
Si avanzava salendo progressivamente perché il pavimento tendeva a rialzarsi, mentre il soffitto, seguendo la tipologia consueta degli ipogei egizi, contemporaneamente si abbassava.
Sulla parete di fondo del sacrario comparivano le quattro statue degli dei Ptah (dio dell’arte), Amon-Ra (dio del sole e padre degli dei), Ramsete II divinizzato, e Ra (il falco col disco solare).
Stavano seduti con le mani in grembo, in attesa che il sole li illuminasse (ad eccezione di Ptah) nei giorni prefissati, 22 ottobre e 22 febbraio, che commemoravano l’incoronazione e la nascita del faraone, nonché i momenti salienti che scandivano l’agricoltura, base economica del paese: l’inizio del raccolto e la fine della piena del Nilo. L’evento che si verifica tutt’oggi puntualmente ogni anno, dimostra ancora una volta la maestria dei tecnici che nel trasferire il monumento calcolarono con esattezza l’orientamento, in modo che il fenomeno si ripetesse.
L’unico su cui non batterà mai il sole è Ptah, dio dell’artigianato, cui viene attribuita la nascita dell’universo grazie alla potenza creatrice della parola. Il suo culto nacque a Menfi, l’antica capitale, dove sorgeva il suo tempio, così importante che pare abbia dato origine perfino al nome con cui gli Egizi indicavano la loro terra: Hut-Ka-Ptah, parola che i Greci trasformarono poi in Aygyptos, e il cui significato era “palazzo dello spirito di Ptah”.
Nel tempio di Abu Simbel, il dio Amon, rimasto acefalo, è raffigurato secondo la tradizione avvolto da un mantello da cui sporge lo scettro del potere regale. La sua sposa era la dea Sekhmet dalle sembianze di leonessa, la cui effigie avevo notato all’ingresso del tempio di Medinet Habu. Con il figlio Nefertum formavano la triade di Menfi. Ma Ptah era considerato anche divinità ctonia, ossia appartenente alla vita sotterranea, ecco perché i raggi del sole non potevano illuminarlo.
Mentre contemplavo le sacre immagini nel tempio di Ramsete II, si è avvicinato un gruppo di turiste. Ho subito colto qualcosa di strano con la coda dell’occhio e voltandomi ho assistito a una scena curiosa: sostavano quelle donne straniere compunte e rispettose, ma la particolarità era che tenevano le braccia levate davanti a sé con le palme rivolte verso l’alto in atteggiamento di preghiera. Appartenevano dunque a qualche setta che aveva tratto beneficio dalla venerazione di antiche divinità pagane? Chi lo sa. Tutto è possibile al giorno d’oggi che perfino in Vaticano è stata accolta con tutti gli onori la Pachamama.
Sono uscita al richiamo di Yasser. Al grido di Adnat ci invitava a spostarci nel vicino tempio della consorte del faraone, Nefertari. Costruito a imitazione del primo, scavato nella roccia con uno schema analogo, ma di dimensioni inferiori, testimoniava quanto la regina fosse amata dal suo sposo. Si tratta infatti dell’unico caso di consorte di faraone divinizzata, in quanto anche la regina Hatshepsut era stata divinizzata, ma lei era assurta al ruolo di faraone. Nefertari era di origine nubiana, pertanto anche l’ubicazione dei monumenti proprio nel tratto dove ha inizio la Nubia, era un omaggio al paese di provenienza della sposa.
Il suo tempio è dedicato a Hathor, dea dell’amore, della gioia, della danza, con cui la regina si identificava. La facciata presenta sette contrafforti inclinati, tappezzati di geroglifici e sormontati da un fregio, intervallati da sei statue: ai lati esterni compare Ramsete II, a destra col capo ornato dal nemes, con sopra il disco solare e le piume, e a sinistra con la corona dell’Alto Egitto.
Ai lati della porta sono scolpite altre due statue del faraone divinizzato con la doppia corona a destra e quella bianca a sinistra. In mezzo a ciascuna coppia di Ramsete è raffigurata la regina Nefertari in veste di Hathor. Ai lati delle statue del faraone sono scolpiti i figli maschi, mentre ai lati della regina le figlie femmine.
La sala interna è un quadrato su cui poggiano sei pilastri hathorici, ossia con le sembianze di Hathor, sormontati da capitelli ornati con la testa della dea dalle orecchie di vacca. Tutt’intorno alle pareti si susseguono sacrifici agli dei e consuete processioni di offerte. Nel sacrario, racchiusa tra due pilastri osiriaci, è collocata in una nicchia l’effigie della dea Hathor.
LA COSTRUZIONE DELLA DIGA DI ASSUAN
Uscendo dal tempio di Nefertari abbiamo preso la via del ritorno, ma prima di entrare in città siamo passati sulla diga di Assuan.
Torno ancora al resoconto dell’amico Vittorio Parigi, che ebbe la ventura di capitare ad Abu Simbel nel momento in cui erano iniziati i lavori per la costruzione della diga. Dalla sua visita al cantiere riportò l’impressione di una enorme impresa brulicante di uomini e mezzi. Era il 1962, esattamente dieci anni dopo la liberazione dell’Egitto dall’occupazione inglese.
Nel 1952, anno della mia nascita, finì la colonizzazione del paese, grazie al colpo di stato di un gruppo di militari di cui faceva parte Nasser, il futuro Presidente. Il re Faruk, costretto all’esilio, si rifugiò a Roma, dove si faceva notare, come appresi da una mia zia, mentre sorseggiava aperitivi seduto nei bar di Via Veneto.
L’Egitto divenne da allora una repubblica, assumendo un ruolo determinante e non solo fra gli stati mediorientali. Nel mondo diviso in due blocchi guidati dalle superpotenze, si avvicinò ai paesi non allineati, fra cui emergevano la Cina e l’India.
Ma una politica indipendente non poteva reggersi senza una autonomia di tipo economico. L’Egitto era poverissimo, dato che l’agricoltura era la sua unica fonte di reddito, peraltro dipendente dai capricci del clima, perché le inondazioni non sempre risultavano benefiche, a volte provocavano gravi danni causando la fame fra la popolazione. Mancavano servizi e infrastrutture.
Il presidente Nasser pensò allora di affrontare il problema con la costruzione di una grande diga che contenesse le acque del Nilo regolandone il flusso, per migliorare così la produzione agricola e produrre l’energia elettrica necessaria al paese.
Ho già accennato alla diga che gli inglesi avevano eretto ad Assuan durante la loro dominazione, ma questa non risultava più bastante a risolvere il problema. Fu pertanto individuata una località più a sud, sempre nei pressi di Assuan, per la costruzione di un nuova più grande opera di sbarramento.
Naturalmente mancavano le risorse, tuttavia Nasser ottenne la promessa di finanziamenti sia dalla Banca internazionale che dagli Usa e dalla Gran Bretagna. Ma a mandare all’aria l’accordo subentrò la crisi del Canale di Suez, scoppiata quando l’Egitto decise la nazionalizzazione della zona, che era stata occupata dagli inglesi nel 1882 per controllare il traffico che si svolgeva fra la madrepatria e la colonia indiana.
In seguito all’indipendenza dell’India l’interesse per il canale non era tuttavia scemato, data la sua importanza per raggiungere i paesi fornitori di petrolio. Avvenne così la rottura con gli inglesi, sottolineata pure dall’occupazione da parte degli Israeliani della zona del Sinai. La guerra fu evitata per le pressioni di entrambe le superpotenze, ma ormai Nasser non aveva più l’appoggio finanziario promesso, per cui fu costretto a rivolgersi ai russi, ben contenti di partecipare al progetto.
Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – Capitolo 21 (continua)