Il sogno che ci ha allevati quando eravamo bambini aveva un nome mitico e famoso: Walt Disney. Era la versione infantile dell’american dream, il sogno americano a misura dei più piccoli, il magico mondo parallelo che nutriva e incanalava la fantasia puerile e faceva anche dei bambini dei piccoli consumatori in erba; di fiabe, fumetti e pomeriggi al cinema o davanti alla tv. In fondo non è stato celebrato in grande il centenario della nascita della Walt Disney, nell’ottobre del 1923. Troppe le celebrazioni recenti, dedicate ai cartoons, troppe le polemiche sulla deprimente virata politically correct della multinazionale della ricreazione, che ha riscritto molte fiabe famose in versione edulcorata e corretta, nel segno del femminismo, dell’omofilia, della non violenza e della retorica dell’accoglienza e dell’inclusione. Walt Disney ha prodotto la mitologia del Novecento, made in Usa; un racconto per i bambini di tutto il mondo, o quantomeno d’Occidente, che colonizzava l’immaginario collettivo, non solo infantile. Lo popolava di figure della fantasy che vivevano in una realtà verosimile, e traducevano in chiave di fumetto, situazioni, caratteri, perfino rapporti di classe, avrebbero detto i marxisti di una volta, che rispecchiavano la società capitalista, tra padroni, proletari, emarginati, furbetti e fessi. Paperone “sdoganava” la figura del capitalista, Topolino era letto come un agente piccolo borghese del capitale, quasi un cripto-fascista.
Ma la forza e il fascino maggiore dell’universo disneyano è in quella specie di mitologia parallela. Walt Disney è stato davvero l’Omero del secolo americano: alla mitologia degli antichi che fu il terreno originario della civiltà mediterranea ed europea, Disney sostituì la mitologia fumettistica e cinetelevisiva degli States che ha imperato nel Novecento. Una mitologia in chiave industriale, in cui da un verso si riprendeva in modo nuovo la fiaba, prodotto creativo e narrativo dei secoli passati, e dall’altro si mitizzava il mondo della natura e degli animali, fino a generare un mondo parallelo, in cui assumevano tratti, parole e sentimenti umani anche topi, papere, oche, maiali e lupi, cagnoloni e cagnolini, gatti e canarini, insetti e creature del mare. Più qualche irruzione nel mondo degli umani, come Mary Poppins e alcune comedy disneyane. La cosa che più colpiva la fantasia dei bambini era la bellezza smagliante dei colori, il piacere di entrare, di tuffarsi, in quell’universo cromatico e sgargiante, dai colori netti e vivi, in cui la natura si faceva parlante, amichevole, favolosa. Avveniva così per i bambini cresciuti con i cartoons e con i fumetti, una prodigiosa sostituzione: il mondo reale veniva doppiato e surrogato dal mondo magico dei fumetti. Tanti bambini che vivevano in città ritrovavano un rapporto felice e facile con la natura, ma mediato, cartaceo o in pellicola, grazie agli animali disneyani. Ma al tempo stesso sostituivano la realtà della natura, le sue vere bellezze ed asprezze, i suoi pericoli, la “naturale” aggressività del mondo animale, con una specie di universo finto, giulivo, bonario, antropomorfizzato. Pochi erano i cattivi, sempre puniti, in fondo anch’essi simpatici; tanti erano i giocosi, innocui e affettuosi animali. Sarebbe da studiare il nesso assai stretto tra quella passione fiction per la natura e gli animali disneyani e la successiva passione green, ambientalista e animalista che ha caratterizzato gli stessi bambini diventati adulti e poi i loro figli e nipoti.
Della passione disneyana ricordo con affetto due amici che non ci sono più e che all’universo di Topolino & C hanno dedicato saggi di grande interesse: lo studioso tradizionalista Alessandro Barbera e il filosofo della scienza Giulio Giorello. Ai loro occhi Topolino appare un gigante del Novecento. Giorello salutò il Mouse di Disney come suo collega e maestro in un saggio “La filosofia di Topolino”, uscito da Guanda. La sua non era una civetteria da pop filosofo: Ezra Pound disse che la figura letteraria americana più importante era Mickey Mouse.
Il Topolino di Giorello era fatto su misura per lui: non è Legge e Ordine, come si è spesso detto del topo disneyano, ma è un progressista e un relativista che precorre temi odierni, un ribelle che combatte contro le ingiustizie. A Giorello, contrapposi la mia idea di liberarci di Topolino: derattizziamo il Novecento e la filosofia, gli scrissi. Ricordai poi a Giorello che il padre del Topo, Disney, era un conservatore, vicino ai partiti di destra, con simpatie per il fascismo e perfino con venature reazionarie, esoteriche e massoniche da nazismo magico. Disney fu ricevuto due volte da Mussolini che amava Topolino – suo figlio Romano era tesserato nel club di Topolino – e quando con l’autarchia proibirono i fumetti made in Usa, Mussolini di suo pugno scrisse “eccetto Topolino”. Per il Natale del 1937, raccontava Barbera in Camerata Topolino, Goebbels regalò ben 18 film di Topolino a Hitler. Certo, bisogna distinguere tra fasi diverse di Disney e di Mickey Mouse.
Da bambino mi convertì a Topolino provenendo dal mondo più rude delle “strisce” di Capitan Miki, Tarzan e sopratutto Blek Macigno. Paradossalmente il passaggio dai fumetti “umani” a quelli zoologici fu una specie di urbanizzazione e di ritorno alla contemporaneità. Il Topolino in fondo era un civis americanus, con auto, consumi ed elettrodomestici, un po’ troppo perfettino e assennato, con insopportabili venature yankees. Preferivo Paperino, sfigato con brio, anarcoide e un po’ cazzaro… (Panorama, n.45)