Perché dedicare oggi, in un tempo che pensa poco, ha poca fede, poco amore della storia e della cultura umanistica una biografia a Giambattista Vico? Perché è il più grande pensatore italiano, di quell’Italia di cui fu padre Dante Alighieri sette secoli fa. Misconosciuto, incompreso, più spesso frainteso, o ridotto a qualche tormentone scolastico, tipo “corsi e ricorsi”, Vico è il filosofo che apre nuovi mondi e ci collega ai mondi più antichi; dei miti, della romanità, della cristianità, della tradizione, della civiltà mediterranea. E’ il pensatore che ha cercato il punto di confluenza tra la filosofia, la religione, il mito e la storia, preceduti dalla poesia ed ha pensato con mente eroica una Scienza nuova, che è il titolo del suo capolavoro di tre secoli fa.
Non c’era una biografia di Vico, la storia della sua vita tormentata. Ci sono tanti saggi su Vico, in primis di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, ci sono gli studi e le preziose ricerche di Fausto Nicolini ma non c’era un racconto organico e compiuto della sua vita e del suo travaglio. C’è la sua breve autobiografia incompiuta che è un’apologia di se stesso, quasi una rivendicazione rispetto ai suoi contemporanei. Questa strana assenza di biografia mi ha spinto a scrivere la sua vita in relazione al suo tempo e al suo pensiero.
Vico fu pure precursore del Risorgimento; espressione derivata dall’idea cristiana di resurrezione e da lui applicata alla storia delle nazioni. Il suo pensiero storico è il crocevia delle culture civili e politiche dell’Italia dopo l’unità: la cultura liberale e crociana, la cultura nazionale e fascista, la cultura socialcomunista e gramsciana, la cultura cattolica fino al suo ultimo pensatore, Augusto del Noce, che aveva in mente di dedicare una sua opera finale a Vico. Quando mi consegnò il suo ultimo scritto autografo, pochi giorni prima di morire, si raccomandò di inserire nel suo testo la citazione esatta sull’eterogenesi dei fini di Vico, che non aveva sotto mano.
Con Vico dei miracoli, che esce oggi da Rizzoli (pp.234, 20 euro) ho voluto raccontare la sua vita come un romanzo popolare, però fedele alla sua storia, alla sua epoca e al suo pensiero. Ho voluto riprendere, pur all’interno di una narrazione, i fili del suo pensiero, spiegare la sua complessa Scienza Nuova che è, come lui disse, una teologia civile ragionata ma anche la storia ideale, eterna e universale delle nazioni.
La parabola dell’infanzia in una famiglia povera e numerosa, la sua caduta fatale da bambino per cui sarebbe rimasto demente, secondo il cerusico che lo curò; il soggiorno giovanile da precettore a Vatolla, i suoi primi infelici amori; poi il suo sposalizio con una donna analfabeta che si firmava con la croce e diceva che con i libri non si mangia; la sua vita da capofamiglia, la sua opera concepita tra gli strepiti domestici. E in mezzo le tempeste, le bocciature, le malattie, le derisioni patite, un figlio delinquente che lui fa arrestare ma che tenta poi in extremis di salvare dai gendarmi; le figlie da maritare, le preghiere inascoltate rivolte ai potenti, le umiliazioni accademiche e gli sfottò; la sua vita da inquilino moroso, di casa in casa, le sue lezioni private nei palazzi signorili.
Vico s’identificò nella sua Napoli, che all’epoca era la più grande città europea dopo Parigi. Un ritratto dal vivo della Capitale del sud tra il ‘600 e il ‘700: miseria e nobiltà, bellezza, orrori e misteri napoletani, rivolte e calamità naturali. Nell’arco della vita di Vico nascono tutti i tratti identitari di Napoli, inclusi gli stereotipi: il lotto e la tombola, Pulcinella e il teatro san Carlo, i femminielli e i castrati, detti angiolilli, i munacielli e le vajasse, i maccarune e la pummarola, e molte altre cose che fanno l’identità di Napoli borbonica e del sud.
Incompreso dai contemporanei, frainteso da tanti posteri. Ebbe gloria postuma e ora internazionale. Fu il più grande ma non se ne accorsero, anzi lo presero in giro, ritenendolo un pedante. Quelle traversie che Vico vide trasformarsi in opportunità, lo incitarono a scrivere le sue opere.
C’è però una ragione che spiega l’incomprensione di Vico: i potenti e il clero non leggevano le sue opere o non se ne curavano, il popolo non le capiva, e la cerchia degli intellettuali, i letterati del suo tempo, erano cartesiani, atei, francofili e poi illuministi, avversavano la visione religiosa e tradizionale di Vico, la sua idea della “mano di Dio” che agisce nella storia, l’importanza dell’infanzia nella vita dei popoli e negli universi fantastici, la relazione tra fantasia e memoria, il suo pensiero metafisico rivolto al mito, la sua difesa del comune sentire popolare, della famiglia e del sacro in un’epoca che si andava secolarizzando. Nel suo capolavoro egli cercò di sposare tradizione e novità, mito e storia, progresso e ritorno in una visione ciclica della storia in forma di spirale. Su quelle basi nacque il realismo vichiano, dove il vero coincide col fatto (verum est factum).
Amò la Provvidenza ma non fu ricambiato, era malinconico e si riteneva sfortunato. I suoi funerali furono ripetuti due volte – corsi e ricorsi anche da morto- per una contesa tra il collegio accademico e la sua congregazione religiosa, una specie di conflitto simbolico tra intellettuali laici e credenti.
Ci sono tante ragioni di pensiero, tante curiosità di vita e di storia, tanti intrecci col suo tempo e col nostro, che meritavano di essere raccontati. Vico dei miracoli è un noto punto di Napoli, ma è la metafora di un pensiero miracoloso, non solo per i suoi riferimenti alla grazia della Provvidenza. E mentre la vecchiaia avanzava, Vico insegnava ai suoi alunni, che più la storia avanza più il mondo si rinnova e anziché invecchiare ringiovanisce… Oggi nella sua casa natia, sotto la lapide che lo ricorda, c’è una friggitoria, allegoria della fine che hanno fatto il pensiero e la memoria. Fritti.
La Verità – 29 agosto 2023