VITTORIO ZEDDA: “A mio padre, che mi insegnò a scrivere”

Era il 1946, d’autunno, e mi pareva l’alba del mondo, poiché mi affacciavo, pieno di curiosità, alla porta della conoscenza ed era mio padre a guidarmi. I tempi e gli eventi, tanto più grandi di me, non erano però estranei a quel che mi succedeva. Anch’io, come tanti, ho visto dipanarsi la storia della mia vita, come parte infinitesimale di una storia più grande che coinvolgeva destini ed eventi.

Vivevo a Vigolante, un paese vicino a Parma, nella casa dei nonni materni, dove ero arrivato tre anni prima dalla Toscana, “sfollato” con la mia famiglia. Nel 1943 avevamo lasciato Lucca, dove ero nato nel ‘40. Con lo sbarco degli alleati nel sud dell’Italia, il fronte della guerra risaliva la penisola e si avvicinava pericolosamente alla Toscana. Occorreva andarsene.
Del trasferimento al nord, fatto valicando gli Appennini, ricordo il viaggio fatto coi miei sul cassone aperto di un camion sgangherato, tra mobili e masserizie, ammonticchiate. I miei erano seduti su un divanetto. Io, in disparte, seduto su una poltroncina, guardavo un mondo sconosciuto che mi passava attorno. Non so come arrivammo a destinazione.
Non furono anni facili, quelli di Vigolante. A causa della guerra non si trovava cibo, abiti, medicine, legna da ardere. Gli inverni erano gelidi. Noi piccoli eravamo sempre un po’ malati: le poche foto mie di quegli anni mostrano un bambino triste e magro.

Io, come i miei coetanei, imparavo giorno per giorno cosa fosse la guerra. Dall’orto di casa assistevo a distanza alle incursioni aeree su Parma, ché la città, in linea d’aria, non era lontana, oltre la distesa dei campi.
Sulla linea dell’orizzonte volteggiavano gli aeroplani e si alzavano le dense nuvole rossastre delle esplosioni. Rividi, anni dopo, scene simili nei film, ma io avevo già visto tutto, “in originale”. Vissi così, una volta, anche la minaccia di un bombardamento notturno, che ci indusse a uscire di casa la notte e a cercare rifugio in un fossato asciutto.
Sessant’anni dopo o poco più, nel 2005, tornai in quei luoghi e cercai la vecchia casa e anche quel fossato, di cui trovai, riconoscibile, una superstite traccia sul limite di quello che era stato il podere del nonno parmense: un segno ormai labile d’un tempo andato.

Nel 1944 il paesetto venne un giorno occupato da una compagnia di soldati tedeschi. Occuparono fienili, magazzini e alcuni locali vuoti vicini alla nostra abitazione. Ci fecero paura, ovviamente, ma furono corretti, e non fecero male a nessuno. Restarono nel paese per un periodo che mi parve interminabile, perché vivevo di riflesso i quotidiani timori degli adulti per quell’occupazione.
Si diceva che quei soldati portassero via gli uomini, e io avevo paura per mio padre. Da allora, in un sogno ricorrente, per tanti anni, rivissi mille volte la paura di perderlo: vedevo arrivare nel piccolo borgo la “jeep” dei tedeschi e sognavo di scappare mentre un aeroplano m’inseguiva.
Partirono all’improvviso, i tedeschi, un giorno, prima dell’alba. Quando ci svegliammo, la mattina, non c’erano più né loro né i segni del loro passaggio.
Non vidi più il soldato Willi, che qualche giorno prima della sua partenza mi aveva regalato i giocattoli che teneva in una valigia, nascosta nel pagliaio. Erano giocattoli di legno destinati ai suoi figli in Germania. Ma, come aveva detto ai miei nel suo italiano essenziale, lui non sarebbe giunto vivo in patria, e nulla sapeva più della casa e della famiglia.
Gigantesco e silenzioso nei miei ricordi, Willi mi lasciò quella sua eredità malinconica. Furono i miei primi giocattoli, ma ci giocai poco, perché, non avendo altro, m’ero ormai abituato a trasformare in giocattolo qualsiasi cosa trovassi in giro, pure oggetti pericolosi rinvenuti qua e là.

Partiti i tedeschi, comparvero un giorno due “ribelli”, che così venivano chiamati i partigiani. Ci fecero paura, forse più dei tedeschi, perché non si sapeva chi fossero, ed entrarono nelle case coi mitra spianati. Può darsi, ma lo pensai molto tempo dopo, che fossero diffidenti perché nel paese c’erano stati i tedeschi, anche se presumo fosse chiaro a tutti che di occupazione forzata si era trattato e non di amichevole ospitalità. Quei due uomini armati si portarono via quel poco cibo che era disponibile e non li vedemmo più.
Per un anno almeno, dopo la liberazione, in quelle campagne si sentì parlare di violenze, rappresaglie, rese dei conti.

La guerra era finita, ma la paura, no. Si avvertiva che l’atteggiamento della gente era cambiato, perché il nuovo quadro politico rinfocolava inimicizie e vecchie beghe paesane. Il nonno materno, residente a Parma, proprietario terriero a Vigolante, era scomparso dal 1942. Era stato un “padrone”, ma non fascista. Piccolo di statura con un handicap fisico, mi fu descritto come un uomo arguto, colto, amante dei melodrammi verdiani. Mi raccontarono del suo amaro commento, quando vennero promulgate le leggi razziali. Disse: «Se ora se la prendono con gli ebrei, allora vuol dire che stiamo finendo nel baratro». E così fu. Alla morte del nonno i terreni dell’antica tenuta agricola erano stati venduti poiché la nonna materna non era in grado di occuparsene.

Ma la guerra nel giro di pochi anni fece crollare il valore dei soldi, e ciò fu soprattutto la conseguenza delle “am-lire”, la carta moneta, che ricordo bene, portata in Italia a tonnellate dagli americani. Dopo l’8 settembre 1943 le nuove truppe di occupazione alleate tentarono in Italia la sostituzione delle lire con quelle piccole banconote quadrate, verdi e beige, che provocarono una gigantesca inflazione. Mentre la nuova moneta “alleata” perdeva valore da un giorno all’altro, le vecchie lire circolanti diventavano “carta straccia”, secondo il principio per cui “la moneta cattiva scaccia quella buona”, come appresi da adulto su un testo di economia “curtense” del medioevo.
Quello che era sembrato il ricco gruzzolo della nonna, che lei usava per aiutare i famigliari, in poco tempo svanì. E tutti fummo poveri. Però la gente del luogo diceva che eravamo “signori”, ma il senso era malevolo, e i commenti in dialetto contro la mia famiglia, bambini compresi, erano astiosi. Io, seppure piccolo, sentivo che di lì dovevamo andarcene. Non eravamo originari del luogo, dove non avevamo legami con alcuno poiché della antica famiglia del nonno mia madre era rimasta l’unica discendente, sposata per giunta con un “forestiero”.

Il 1946 portò l’esigenza di porre termine ad una esistenza da “sfollati” e tornare a vivere in città. Nel paese c’era una scuola elementare, una casetta con un’unica grande aula, ma una famiglia che pensava al futuro scolastico dei figli sentiva l’esigenza di trasferirsi in un luogo dove ci fossero scuole d’ogni grado.
Trovare un alloggio a Parma, dove rientravano gli sfollati e tante case erano state bombardate, divenne per i miei un sogno o forse un assillo, perché pareva impossibile. Io avrei dovuto iniziare la prima elementare proprio quell’anno poiché compivo i sei anni a ottobre, ma la riapertura della scuola di Vigolante pareva problematica. Si sarebbe costituita un’unica pluriclasse con tutti gli scolari, dalla prima alla quinta classe, tutti assieme nell’unico locale disponibile. Con una sola insegnante, perché all’epoca una classe poteva raggiungere il numero di sessanta alunni. Se ben ricordo la maestra del paese, l’anziana signora Masante, stava per andare in pensione e si aspettava che venisse nominata una sostituta.

Alla fine dell’estate la riapertura della scuola non era ancora certa. Mio padre, ex maresciallo della Regia Aeronautica, attendeva di essere richiamato a prestare servizio nella nuova Aeronautica Militare in via di riorganizzazione.
Tra le mille cose che faceva per procurare alla famiglia il necessario e mentre cercava quasi quotidianamente un’abitazione a Parma, decise che non avrebbe aspettato che la scuola di Vigolante riaprisse.
Sarebbe stato lui il mio primo insegnante e, in mancanza di altri riferimenti, notificò alla maestra Masante che il piccolo Vittorio, al compimento del sesto anno d’età, avrebbe usufruito della “scuola paterna”, opzione prevista dalle norme sull’istruzione obbligatoria, curando che la scelta che mi riguardava fosse portata a conoscenza di chi di dovere.
Iniziò così un contatto quasi quotidiano fra mio padre e l’anziana insegnante, la quale consigliava, di volta in volta, a mio padre che cosa insegnarmi e come. Sotto la guida paterna iniziai cosi ad usare penna, pennino e calamaio. Comincia a tracciare i primi segni (le “aste”), poi le lettere dell’alfabeto e le sillabe, secondo un vecchio metodo, oggi impensabile.
Imparai a intingere solo la punta del pennino nel calamaio, per evitare che l’eccesso d’inchiostro, gocciolando, macchiasse la pagina e rovinasse il lavoro. Imparai cosa fosse la calligrafia, perché ogni singola lettera doveva essere scritta con un tratto sottile nella parte ascendente, più marcato in quello discendente e ancor più elaborato nelle lettere maiuscole.
Venivo educato, così, senza saperlo, ad una manualità fine, che richiedeva di tenere la penna con tre dita al fine di dosare e modulare la pressione del pennino, per dare alla scrittura bellezza ed eleganza. Oggi vedo i ragazzi impugnare la penna come fosse un punteruolo, perché certe cose non s’insegnano più.
Mio padre mi seguiva e mi correggeva. Io imparavo rapidamente e lui portava il mio quaderno alla maestra Masante. Tornava soddisfatto e mi insegnava a scrivere altre parole, e poi frasi sempre più complesse.
In breve, in meno di due mesi fui in grado di scrivere una lettera al nonno sardo, papà del papà, il quale conservò tutte le mie lettere, che mezzo secolo dopo tornarono in mio possesso. La prima lettera era datata 25-11- 46, come scrissi così coi numeri, sotto la mia firma. Quell’autunno del 46, con la scrittura si aprì di fronte a me un nuovo mondo. Imparavo giorno per giorno il valore della parola scritta, che aveva qualcosa in più della parola detta e andava vergata con cura, eleganza e rispetto. Era un segno di me, che mi nasceva dentro e mi ci rispecchiavo. Rileggevo quello che scrivevo e mi fermavo a riflettere.

Di quegli anni mi è rimasta in casa, l’antica scrivania su cui per anni ho studiato e fatto i compiti. La ritrovai nei primi anni del nuovo millennio, in un ripostiglio, quando dovetti sgomberare la casa dei miei genitori, passati a miglior vita. La restaurai con le mie mani, procurandomi i consigli per farlo e i materiali adatti. Ce l’ho ancora. Fu un atto d’amore e ripulendola vidi riaffiorare le macchie d’inchiostro nero, segni della mia lontana imperizia con la penna e il calamaio. Feci un tentativo per cancellare quelle macchie, che ricordavo d’aver fatto.
Poi decisi di lasciarle com’erano. Mi facevano ripensare a mio padre quando m’insegnava a maneggiare la penna. Così su quel tavolo di noce sono rimasti, indelebili, i segni di un lontano inizio. E ricordo con commozione e riconoscenza mio padre perché poi, nella mia vita, collaborando ad opere divulgative, testi di scuola, giornali e riviste, quel suo insegnamento mi ha permesso di lasciare, ogni tanto, anche segni migliori.

Vittorio Zedda

3 commenti su “VITTORIO ZEDDA: “A mio padre, che mi insegnò a scrivere”

  1. Bellissimo ricordo quello di Vittorio Zedda che ho letto con interesse e curiosità.
    Tre aspetti del racconto mi hanno colpito.
    Il viaggio su un camion dalla Toscana al paese di Vigolante per sfuggire ai bombardamenti durante la risalita dell’Italia da parte degli Alleati.
    Un viaggio attraverso l’Appennino su un camion stracarico di masserizie e quant’altro: un viaggio difficile da immaginare oggigiorno su quel tipo di camion che per partire occorreva girare la manovella e avere la testata del motore preriscaldata.
    Lo ricordo bene quel tipo di camion perché avevo dieci anni quando nel ’56 ci siamo trasferiti di casa a Genova: stesso camion stracarico all’inverosimile …di diverso è che per fortuna non si bombardava più.
    Zedda mi ha ricordato quanto scritto da Gianpaolo Pansa, anche lui sfollato in una cascinotta dell’azienda agricola di cui suo zio era fattore.
    La famiglia di Zedda come la stragrande maggioranza degli italiani che non stavano né dalla parte della Resistenza né con la Repubblica Sociale, erano come un grande vaso di coccio tra due vasi di ferro, molto più piccoli, ma assai più temibili. Per vasi di ferro va da sé che si intendono i fascisti e i partigiani. Questo scriveva Gianpaolo Pansa.
    Vittorio racconta che nell’autunno del 46 inizia la scuola, giusto a anni e giusto nel mese della mia nascita, ottobre ’46. Ci sono 6 anni di differenza ma mi porto dentro la memoria i banchi di scuola dell’epoca, con la boccettina dell’inchiostro nell’alloggiamento previsto, l’odore dell’inchiostro, lo stridere del pennino sulla carta..quante sensazioni uniche e indimenticabili.
    Potrei invidiare Vittorio perché ha avuto la fortuna di imparare a scrivere e leggere direttamente dal papà, oggi diremmo lezioni private, ma non è così perché serbo dentro il ricordo di quando bambino ho frequentato le classi delle Elementari con tantissimi bambini, all’epoca si facevano ancora figli.., ho avuto per Grazia un maestro eccezionale, di una bontà quasi paterna e di una pazienza infinita, tanto che ricordo e vedo ancora con gli occhi, il nome e i lineamenti fini del viso, di quel brav’uomo che mi ha insegnato prima a parlare in italiano, visto che in casa si parlava solo dialetto calabrese, poi a scrivere e insomma a crescere.
    Mi trovo perfettamente in sintonia con Vittorio quando scrive delle sue prime esperienze con in mano una penna, l’importanza e il valore della scrittura con inchiostro indelebile in rapporto alla parola detta a voce.
    Una verità che si attesta ogni volta che il politico in un suo comizio getta in aria fiumi di parole
    Pure emozionante il ricordo delle lettere scritte da fanciullo al nonno e recuperate dopo tantissimi anni. Deve essere stato per Vittorio ritrovare l’innocenza e la sincerità che sono doni che il Signore ci regala unicamente per il tempo che restiamo bambini.
    Francesco Violini

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