Partiamo da un disciplinato esercizio di definizione etimologica, utile ai fini della relativa comprensione del concetto fondamentale che con la parola Resilienza si vuole esprimere. Il termine resilienza viene dal latino <> che significa saltare/rimbalzare. In psicologia col termine resilienza si indica la capacità del soggetto di adattarsi agli eventi avversi della vita. La resilienza è, dunque, la capacità di un soggetto di mantenere un discreto livello di adattamento nonostante le circostanze sfavorevoli. Secondo Michael Rutter, la resilienza è la capacità di svilupparsi in modo accettabile, nonostante la presenza di uno stress o di un’avversità che comporta normalmente il rischio di un esito negativo. Si tratta, quindi, non solo di capacità di resistere alle avversità, ma soprattutto di capacità di superare le difficoltà: la persona resiliente, infatti, quando è sottomessa a pressioni, non soltanto resiste, ma è in grado di proteggere la sua integrità, di costruirsi ed aprirsi strade alternative. Ne sono una dimostrazione i sopravvissuti ad eventi traumatici o altamente stressanti: accanto a persone che rimangono irrimediabilmente segnate dalle esperienze vissute, ci sono persone che, al contrario, riescono ad utilizzare quelle esperienze per apprendere qualcosa di sé o dell’ambiente che li circonda.(Dott.ssa Maria Luisa Abbinante) Diremo quindi che è un lemma nato intorno al 1985 ad opera di uno psichiatra Michael Rutter pioniere della ricerca sulla resilienza e che è impiegato in diversi settori e rappresenta un concetto noto da anni nella pratica manageriale legata al cambiamento e alla capacità delle aziende e dei loro manager di adeguarsi alle discontinuità generate su tutti i fronti dallo stesso. Questo concetto è stato di recente scoperto dagli amanti nostrani del politically correct e applicato a tutte le tematiche comportamentali del variegato panorama degli attuali scenari nazionali e internazionali. Accade sempre così di tutti i contesti in cui bisogna creare o riscoprire, anche se tardivamente e talvolta a sproposito, definizioni calzanti e innovative. È stato così per il fenomeno delle start up, scoperto dagli esperti di sviluppo economico dei nostri illuminati governi e dai loro velinisti dei grandi media solo 30-35 anni dopo che da altre parti era nato, si era sviluppato e aveva raggiunto persino una certa maturità d’uso. Peccato che a livello politico e a fronte dell’invasione dialettica di questo “nuovo” significante non vengano prese adeguate misure di preparazione degli operatori dei vari settori ad una adeguata e strutturata reazione nei periodi di emergenza del paese. Abbiamo infatti notato, con il consueto disappunto e sperimentata delusione, come il nostro paese si sia trovato in una situazione sanitaria di assoluta emergenza senza che le stanze della politica abbiano potuto mostrare di aver adottato opportune scelte metodologiche riguardo a tutte le fasi di pianificazione e cioè senza la dovuta resilienza del sistema esecutivo del paese. Anche qui si è cominciato a parlare di resilienza necessaria solo quando ormai le mancate risposte avevano assunto dimensioni distruttive più vicine al naufragio che non a una faticosa ma risolutiva esibizione di efficace resilienza nazionale. E oltre a riconoscerne la impellente necessità, che di per se sarebbe stato un tardivo ma utile vantaggio, non si è saputo rispondere adeguatamente in più di un anno alle fasi successive di “sviluppo” della pandemia ma ci si è persi in una frammentata, confusa e inefficace convergenza di misure di governo in cui la promessa virtuosità del decentramento amministrativo regionale ha agito come la principale causa del frenante irrigidimento e quindi dell’aumento delle criticità della soluzione prospettata. Oltre ad esibire quindi tardivamente e spesso a sproposito la parola resilienza occorrerebbe quindi lavorare per una adeguata preparazione di operatori e infrastrutture atte a fronteggiare sfide di tali dimensioni e in seguito tutte le sfide che questa tragica azione della pandemia avrà provocato e generato nel fragile tessuto socioeconomico del paese. Dovrebbe essere nel frattempo risultato chiaro quindi alle centinaia di esperti ingaggiati dall’esecutivo e all’esecutivo stesso che resilienza rappresenterà un paradigma che s’avvia a diventare nei prossimi anni un tema politico, oltre che sociale, nell’autorganizzazione delle singole comunità (Marco Belpoliti-Sole 24 ore). Non dobbiamo dimenticare anche il “duro lavoro” (per non ripetere il famoso motto “lacrime e sangue”) necessario per controbilanciare le fragilità burocratiche proprie e caratteristiche del nostro sistema con opportune azioni di recupero , senza dover scivolare nella svendita coatta giustificata sempre e impropriamente dall’emergenza e nella cessione non solo dei diversi livelli di sovranità già conferiti ad altre sedi istituzionali europee (per cui diventiamo una variabile territoriale eterodiretta e in tutto e per tutto dipendente) ma anche di tutti quei tesori virtuali e reali di cui forse ancora per poco disponiamo.
IL PENSIERO DI GIORGIO BONGIORNO: “Il giorno della resilienza”
1 commento su “IL PENSIERO DI GIORGIO BONGIORNO: “Il giorno della resilienza””
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Apprezzo la scientificità della tua indagine a suffragare la dignità etimologica originaria del termine, caro Giorgio. Ma continuo a sostenere che a “resilienza” preferisco di gran lunga il sostantivo “resistenza”. Mi sembra più pregnante sul piano delle implicazioni a livello denotativo e anche connotativo, nonché decisamente più pertinente col proposito di affrontare i tempi che viviamo con una forza non solo di sopportazione ma soprattutto di contrasto e di lotta diretta. Il nostro obiettivo, insomma, è chiaro. Sappiamo bene quali sono le premesse delle nostre convinzioni. Non ci resta che esprimere i nostri rifiuti attraverso una sana disobbedienza.