Marchesi tra il futile e il dilettevole

Marcello Marchesi è l’anello di congiunzione tra la letteratura e lo spettacolo, tra satira e comicità tramite l’umorismo. Marchesi è il ponte tra Flaiano e Totò, tra Achille Campanile e Walter Chiari, tra Leo Longanesi e Paolo Villaggio. Dopo decenni di silenzio dalla sua morte, nel 1978, ora riaffiora perché sono stati ripubblicati due suoi libri da La Nave di Teseo: la raccolta di boutade Il dottor Divago e il romanzo Il Malloppo. 

A vederlo vestito in bianco e nero, coi baffi e gli occhiali neri, come Flaiano, più l’ombrello e il cappello, sembrava uno di quei borghesi di Magritte, con bombetta, cravatta e abito scuro, piovuti dal cielo. Marchesi era un logo vivente della tv in bianco e nero, incompatibile con la tv a colori; difatti se ne andò all’altro mondo con l’avvento del colore. Me lo ricordo da bambino questo signore di mezza età che mi sembrava fuori posto in tv, troppo serio per essere comico, troppo scanzonato per essere serio.

Autore di cinema, famoso soprattutto per i film di Totò, autore in tv di memorabili programmi, autore di tanti indimenticabili motti di Carosello, scopritore di talenti. E autore di testi, di libri che raccolgono i suoi calembour, i suoi giochi di parole, i suoi versi surreali. Si definì futile e spiegò la parola in senso figurato: “Mi fa venire in mente un fucile che spara a borotalco. A pensarci bene, un fucile così non ammazza nessuno e fa sorridere. Sì, sì, sono futile”. Ma dilettevole. 

Veniva dal Bertoldo, risposta milanese al romano Marc’Aurelio, con Giovanni Mosca e Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi e Vittorio Metz, suo amico e coautore di una vita; vi scrivevano pure Campanile, Longanesi, Maccari, Carletto Manzoni e il giovane Federico Fellini. Collaborò a lungo con la Rai sin da quando si chiamava Eiar. Fu il primo “copyrighter italiano” e le sue trovate, i suoi detti, ebbero successo anche da morto, a molti anni di distanza: pensate al titolo del best-seller di Gino e Michele, Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano: era suo.

Coniò slogan virali per la pubblicità ma sotto sotto era un moralista contro il consumismo: si pentì di aver venduto il cervello alla pubblicità e di essere diventato “stratega del desiderio, colonizzatore di anime, uomo al neon”. Per lui il consumismo era una religione a rovescio fondata sullo spreco e sul superfluo, l’avidità e i desideri insaziabili: “diventeremo tutti Buttisti/seguaci del dio Butta/divinità dello spreco/Motto di chi l’adora/Butta via e compra ancora”. Per dirla in breve, rovesciava un noto proverbio: “La pubblicità è il commercio dell’anima”. Come Penelope, Marchesi disfaceva di notte la tela della pubblicità che tesseva di giorno. Ridendo “castigat mores”, quei costumi che lui stesso aveva invogliato a imitare coi suoi caroselli.

Amava il non-sense sin dalla nascita: “quando nacqui in casa c’era solo mio padre. Mia madre era uscita”. Andò in tv perché “era l’unico modo per non vederla”. Dedicò il suo Diario futile a tutte le lettere dell’alfabeto, rendendo divertente la consueta formula di rito “Senza di loro non avrei mai potuto scrivere questo diario”.  Si definì attraverso sei aggettivi preceduti dal più: l’uomo più allegro, più malinconico, più funereo, più bugiardo, più aperto, più provvisorio. E malinconico fu sul serio, come Flaiano e Longanesi. Abissale è la mestizia di alcuni suoi versi, come questi: “quando penso che non m’innamorerò, ormai più/che non soffrirò, ormai, più per amore/ mi sento un morto a cui batte il cuore”. 

Scrisse, a suo modo, il necrologio più onesto del fascismo: “Il fascismo: l’Italia del periodo Paleopolitico. Il periodo in cui eravamo tutti fidenti, fidentissimi e c’era uno più fidente di tutti. Il fascismo sembrava il sogno di un popolo povero che faceva tenerezza anche agli americani. Ohè! La traversata atlantica! Vuoi vedere che l’ingenuità è la strada giusta? Vogliono l’imperetto, birichini. Alè, diamogli lo scappellotto delle sanzioni. Poi arrivò il compagno cattivo e tutto si guastò irrimediabilmente”.

Sono celebri e folgoranti le sue definizioni che giocano sui luoghi comuni e il suo dizionario delle celebrità; ma sono più significative le sue osservazioni da u-moralista, ossia moralista umorista e umorale. Per apprezzare Marchesi bisogna tuttavia avere un retroterra colto o almeno liceale, conoscere un po’ di storia, di latino e di cultura generale.

Irriverente verso tutti: quel devoto ipocrita che assisteva tutte le domeniche alle “Sacre Finzioni”; quel poeta, la cui figura “naneggia in tutta la sua pochezza nel panorama della poesia contemporanea”. O quella volta che disse di aver sfregiato una tela d’arte informale alla galleria d’arte moderna:“con quel taglio il suo valore è salito di un milione”. Criticò il progresso: “Bella la vita di adesso. Si vive più a lungo, si muore più spesso”. 

Poi la sua tenera poesia a “l’unico amico” (Vittorio Metz) “Vieni a trovarmi finché son vivo… scambiamoci un sacco d’idee sbagliate/invecchiamo un’ora insieme”. Quando era demoralizzato si sentiva “un brufolo devitalizzato”. Tendeva a dimenticare i torti subiti ma non per generosità, confessò, ma perché non gli andava di soffrire.

Anche la sua vita finì in modo assurdo, tragicamente buffo, a 66 anni: fu nel mare in Sardegna per un’audace capriola nell’acqua. E dire che pochi anni prima in Essere o benessere aveva scritto della strana sorte di un supertimido: “Affogò perché si vergognava a gridare aiuto”. Disse di sé: “Sono un mediocre pieno di genialità, sono un genio che non ce la fa”. Ad avercene di mediocri come lui.

(Panorama n.22)

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