Eccoli, i nuovi poveri. Non sono poveri di mezzi, bisognosi di mangiare, di vestirsi, di una casa; non sono poveri economici, come si dice per i migranti né fanno parte di quei milioni di cittadini, pensionati, che non riescono ad arrivare a fine mese. In una società che riconosce l’esistenza dei beni immateriali ci sono i poveri di beni immateriali. Poveri di vita, poveri di esperienze da raccontare, forse poveri di spirito. Sono soprattutto giovani, ma la nuova povertà investe l’intera società e le relazioni pubbliche. Non sanno cosa raccontarsi, tacciono, ripiegano sui loro smartphone, sugli schermi, sulle storie finte e prefabbricate a cui possono accedere.
L’indigenza di questo nuovo ceto di “miserabili”, che possono essere pure agiati, investe quel bene elementare che è l’esperienza, e la prima forma di comunicazione culturale, il racconto. È “la crisi della narrazione”: così la chiama Byung-Chul Han, prolifico filosofo sociale tedesco-coreano, nel suo nuovo saggio tradotto da Einaudi. La povertà attiene, a suo parere, all’informazione, alla politica e alla vita quotidiana; investe dunque anche i media. Ma la gente, oltre a vivere sempre meno esperienze da raccontare, legge meno e conosce sempre meno esperienze altrui che meritano di essere narrate. Si potrebbe infatti risolvere la questione dicendo che è un effetto della crisi dell’informazione, il calo della lettura; ma sarebbe una mezza bugia. Perché anche le società analfabete, le società povere del passato che non s’informavano se non attraverso il passaparola, i si dice, la piazza, il mercato, inteso come esperienza di vita prima che come luogo in cui si vendono merci, avevano un ricco tessuto narrativo, comunicavano perché erano comunitarie, socievoli; erano ricche di passato.
Eppure viviamo dentro una bolla narrativa permanente, uno storytelling rumoroso e contagioso; ma frastornati da questo incessante cicalare dei mezzi di comunicazione viviamo dentro un vuoto narrativo. Viviamo anzi, secondo il filosofo, “in una società postnarrativa”; e senza racconto “non si dà alcuna festività”, nessun sentimento di celebrazione, “nessuna intensificazione emotiva dell’essere”. Eppure se senti le interviste e i reportage sugli eventi pubblici, la parola chiave, ricorrente, anzi ossessiva, è “emozione”. Non c’era intervista intorno a un evento pervasivo come Sanremo che non ruotasse intorno alla parola emozione; era l’unico esito, l’unica domanda e l’unica risposta sull’esperienza canora.
In questo quadro, dice Han, trovano spazio “i modelli narrativi populisti, nazionalisti, di estrema destra o tribali, inclusi i modelli narrativi complottistici”. Fanno presa perché offrono a buon mercato senso e identità, anche se non sviluppano coesione sociale. Perché gli utenti sono consumatori solitari.
Eppure la narrazione deborda tramite film, tv, storie sui social, e veicola l’ideologia del nostro tempo. Ma non è una contraddizione, anzi c’è un nesso tra questa narrazione woke, massiccia e invasiva, e la crisi del racconto. Perché non se ne può più di quello storytelling moralista a senso unico, ci sentiamo prigionieri di quegli schemi obbligati: se si narra di storia, il tema è il nazismo e suoi affluenti; se si racconta di storia sociale il tema è il razzismo e i suoi annessi e connessi; se si racconta una storia intima è storia di omosessuali e simili; se è storia di genere è femminismo, inclusione, ecc. Il buono nel racconto è sempre nero, donna o vittima rituale del cattivo, il conservatore, il nazionalista, la società patriarcale e tradizionale. E per uscire da questa cappa, per colmare un bisogno di senso, identità e orientamento, non resta a molti che abbandonarsi alla contronarrazione, quella che non proviene dall’alto ma dal basso, quella populista, radicale, perfino complottista. Anche il romanzo contemporaneo, per Han, non genera comunità ma promuove solitudine, anzi peggio, isolamento. “Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute”, dice Georg Bruckner. Niente viene più tramandato, non c’è più esperienza verticale che si trasmetta tra le generazioni, mancando la memoria storica e il legame generazionale tra giovani e vecchi; al suo posto disponiamo dello sterminato menu del web o dei social, che ci narrano in progress il presente, le novità trendy, le tendenze prevalenti. Anzi le sue tendenziosità prevalenti, dunque il narrare cede il passo alla veicolazione ideologica, alla tesi prefabbricata. Il nuovo barbaro, nota Han, “celebra la povertà d’esperienza come un’emancipazione”; così siamo diventati poveri. Abbiamo ceduto un pezzo dopo l’altro dell’eredità umana. Viviamo in una società di vetro: perciò tutto dev’essere trasparente, vuoto, fragile e se si frantuma, tagliente, pericoloso. Una società senza alternative, oltre che priva di nostalgia. Il mondo appare “di troppo” come ne la Nausea di Sartre. L’analisi di Han prende una piega conservatrice, critica il dominio della tecnica, dei consumi e dell’intelligenza artificiale, nostalgica dei miti e dell’esperienza reale. Ma Han, come spaventato per la “deriva” reazionaria, alla fine torna precipitosamente indietro, elogia la società inclusiva, la società cosmopolita che è l’esatta negazione della società comunitaria che prima aveva elogiato. E se la prende con i modelli narrativi conservatori e nazionalisti per salvare in corner la sua “inclusione” nella casta intellettuale del nostro tempo. Una ritrattazione che mortifica la sua intelligenza libera e manda all’aria tutto quel che aveva detto fino allora. Ma l’intelligenza esige coraggio e amor di verità…
(Panorama, n.11)