ISABELLA MECARELLI: “VIAGGIO IN EGITTO – Tropico del Cancro – (capitolo 17) – vedi galleria fotografica

Esattamente a 72 chilometri da Assuan abbiamo superato il Tropico del Cancro. Al ritorno dal viaggio ho controllato sull’atlante quali zone del Sahara attraversasse e ho constatato che passava molto al di sotto di El Golea, l’oasi algerina visitata decenni fa. Quindi Abu Simbel è risultato il punto più a sud dell’Africa sahariana da me raggiunto.

La strada che percorrevamo era sempre costeggiata ad ovest dai tralicci dell’alta tensione; sullo sfondo di un terreno sabbioso, che si estendeva come un’enorme spiaggia, si profilavano i contrafforti della catena libica, delle alture livellate, dalle superfici scabre; mentre a oriente nessun tipo di rilievo emergeva dalla pianura arida, bruciata dal sole.

A mattino inoltrato la strada a doppia carreggiata, liscia e ben tenuta, si è animata per il passaggio di alcuni mezzi. Incrociavamo pochissimi veicoli, mentre a viaggiare nel nostro senso di marcia erano soprattutto camion che trasportavano tubi per metanodotti o altri materiali e auto della polizia.

Abbiamo incontrato un’altra tappa di ristoro dove non ci siamo fermati, depositi di camion e poche abitazioni isolate dall’aria dimessa e dalla forma stramba, probabili alloggi di fortuna per il personale. Abbiamo attraversato due canali che trasportano l’acqua del lago nelle campagne per irrigare campi coltivati con sistemi biologici, ha spiegato Yasser, il che denota un ambizioso livello di bonifica.

E’ comparso un villaggio costruito apposta per ospitare i lavoratori del progetto. Abbiamo costeggiato un muraglione che cingeva una vasta aerea, proprietà di un’importante azienda cinese che ha avviato una coltivazione di essenze con metodi sperimentali.

La strada che percorrevamo si svolgeva parallela al lago Nasser, ma a così tanta distanza che non lo si poteva mai scorgere. Pertanto l’arrivo è stata una sorpresa. Appena scesi dal pullman, si è spalancato un panorama straordinario: è apparso un bacino talmente esteso da far dubitare che fosse un lago. All’orizzonte si profilava la superficie piatta di una costa bassa, ma così articolata e soprattutto lontana dal punto di osservazione, che dava l’illusione di contemplare un’ampia insenatura marina. L’atmosfera, pregna dei vapori che salivano dal lago, avvolgeva l’ambiente in una fascia caliginosa, diffondendo umidità. Spiccava il contrasto della massa d’acqua con l’ambiente circostante arido e spoglio, confermando ancora una volta la peculiarità di questa terra, dominata da elementi opposti che non permettono sfumature nel trapasso fra l’uno e l’altro.

UN INDIANA JONES ITALIANO

Mentre camminavamo sul sentiero che costeggiava la riva, lo sguardo era calamitato dal lago, finché a una svolta sono apparsi all’improvviso i templi. Lo spettacolo delle rupi fronteggiate dai colossi troneggianti sulla vastità del panorama è stato emozionante, tanto più se ripensavo alla storia mirabolante che li ha contrassegnati. Al di là infatti del valore storico-artistico, l’aspetto che li rende ancor più affascinanti è il loro legame con eventi curiosi, che oltretutto sono collegati proprio a noi italiani, autori, si può dire, di un doppio salvataggio.

Innanzitutto la scoperta. Perché chi ha dissepolto i monumenti è stato un italiano, un personaggio unico nella storia dell’archeologia. Si tratta del padovano Giovanni Battista Belzoni, uomo, come si suol dire, di multiformeingegno, e che merita di essere ricordato come autentico pioniere degli scavi in Egitto, nonostante la sua formazione non fosse di tipo umanistico, ma scientifico. Insomma un personalità che ricorda altri outsider dell’archeologia che svolsero un compito altrettanto prezioso, come è il caso di Schliemann, lo scopritore di Troia.

Ma come capitò Belzoni in Egitto e come fu che si dette ad esplorare tra i primissimi europei la valle del Nilo? La sua storia è veramente originale. Si era specializzato in idraulica dopo una vita avventurosa in cui aveva praticato diversi mestieri, perfino l’attore e il fenomeno da baraccone: grazie alla sua stazza, era alto due metri e dieci, si esibiva in pubblico sollevando enormi pesi, riuscendo a sostenere perfino una piramide umana di nove persone.

Quando nel 1815 venne a sapere che il governatore dell’Egitto cercava sistemi avanzati di irrigazione, pensò di proporgli una ruota idraulica di sua invenzione. Quindi partì alla volta del Cairo per presentarsi a Mohamed Alì, lo stesso pascià che pochi anni prima aveva inferto un duro colpo ai Mamelucchi, il corpo di soldati che avevano governato prima di lui il paese, tendendogli una trappola machiavellica: aveva invitato i loro capi, 480 bey, a un grande banchetto per sterminarli tutti. Ecco con chi ebbe a che fare il nostro Belzoni che, sebbene ricevuto con garbo dal pascià, non riuscì tuttavia a convincerlo della bontà dell’invenzione.

Ciononostante il suo viaggio non fu vano perché, entrato nelle grazie del console generale inglese, Henry Salt, che si era prefisso di arricchire la collezione del British Museum, ricevette da lui l’incarico di spedire in Inghilterra una statua colossale ritrovata nella tomba di Ramsete II a Tebe.

Il bello è che Mehemet Alì non ebbe niente da ridire, anzi concesse di buon grado le autorizzazioni necessarie ad esportare la statua per farne dono, come gli fu spiegato, a Giorgio IV di Hannover, principe reggente d’Inghilterra: il pascià era rimasto sbalordito che una persona così importante potesse gradire come regalo… “una pietra”.

Le operazioni necessarie per il trasporto del busto, battezzato erroneamente “Giovane Memnone”, ma in realtà ritratto del faraone Ramsete II, meriterebbero un capitolo a parte. Mi limito a ricordare che il Nostro se la cavò egregiamente durante le varie fasi del trasporto grazie soprattutto alle sue conoscenze nel campo dell’idraulica. Fece poggiare il Colosso su tronchi di legno per poterlo trainare con delle corde fino al Nilo, dove fu imbarcato per raggiungere Il Cairo. Da lì la statua navigò alla volta dell’Inghilterra dove fu accolta nel British Museum.

Una volta portata a compimento con successo l’impresa, tentata invano dai francesi di Napoleone, Belzoni decise che l’Egitto gli piaceva e che era degno di una sosta prolungata.

Quando seppe dall’esploratore e amico Johann Burckhardt dell’esistenza di statue sepolte nella sabbia, da lui scoperte per caso quattro anni prima, decise di intraprendere un viaggio avventuroso fino alla seconda cateratta con l’intento di disseppellirle. Anche questa, che si prospettava una “mission impossible”, fu affrontata dal Nostro con il consueto ardimento. Si trattava appunto dei colossi di Abu Simbel.

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – Capitolo 17 – “Tropico del Cancro” (continua)

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