Ventitré maggio 1965 è la data di un articolo scritto da Alberto Moravia come resoconto di viaggio di una delle giornate da lui trascorse in Marocco in qualità di inviato speciale del Corriere della Sera. Di fronte agli occhi dello scrittore si apre un paesaggio sconfinato, fatto di terreno “morto e sterile”, brullo e arido, scevro di particolari ed essenziale. Egli vi si riferisce definendolo il «regno del vuoto», senza scopo, in cui pare non ci possa essere altro che la terra “ridotta a superficie deserta”. Sopra, invece, l’azzurro del cielo africano, anch’esso sconfinato, illuminato da un sole incandescente, che domina tutto l’orizzonte.
Di fronte all’infinità dello spazio che gli si para di fronte, al cospetto di questo vuoto immenso, l’occhio, dice Moravia, «non soffre, non si sbigottisce, non si annoia, ma lo gode, se ne nutre e lo assorbe senza mai esserne sazio». Da quest’ambiente africano pare spirare un fascino naturale, da cui un individuo sensibile come lui non può che sentirsi sedotto. Si tratta di un fascino che si spiega, forse, con la necessità fisiologica che tutti gli uomini hanno di relazionarsi con la dimensione della vastità e del vuoto.
L’Europa è paesaggisticamente troppo ricca. Gli occhi che osservano gli ambienti di cui i territori europei sono fatti ne colgono la presenza di elementi e di particolari minuti e angusti, troppo vari per venire incontro al bisogno di infinità che il desertico paesaggio africano consente di soddisfare.
Giunto presso il centro abitato di Zagora, nel sud del Marocco, lo sguardo dello scrittore nota la presenza di “edifici ufficiali costruiti dai francesi”. La caserma, la banca, l’ospedale, la posta, la gendarmeria, il comune, una pompa di benzina e officine per la riparazione di automobili si collocano dove, una volta, sarebbe stato possibile trovare, invece, caravanserragli per il riposo dei cammelli.
Attorno a questo villaggio, fatto di casupole bianche, il niente che lo circonda. Questo niente, dice Moravia, «attira e incuriosisce molto più di quel gruppo di case e dei suoi abitanti».
La tappa successiva del viaggio di Moravia è quella di Tamgrut, altro centro abitato non lontano da Zagora. Lì lo scrittore dice di volersi recare più per vedere quello che non c’è, che è assente, per verificare ciò che manca piuttosto che quello che c’è. In posti come questi ci si va per nutrire la propria osservazione allo scopo di constatare quanto sia facilmente percepibile quel senso di vuoto e quell’assenza di oggetti e di vita che caratterizzano l’ambientazione e i paesaggi.
Arrivato a destinazione lo scrittore si reca presso una biblioteca il cui custode gli mostra una serie di manoscritti rari tra i quali, soprattutto, diverse copie del Corano. A un certo punto il custode afferra un grosso volume e, porgendolo al cospetto di Moravia, pronuncia il nome di “Avicenna”, l’autore di quel libro.
La memoria di Moravia viene stimolata da quel nome ed egli lo associa subito a quello di uno scrittore nato in Uzbekistan, nell’Unione Sovietica, in Asia centrale, a migliaia di chilometri di distanza da quel piccolo borgo del Marocco. Eppure le opere di quello scrittore si trovano lì, a Tamgrut.
Questa rivelazione consente a Moravia di comprendere il senso di universalità che si accompagna alla cultura islamica. L’espansione beduina avvenuta a est e a ovest, lungo tutta la fascia desertica e predesertica delle zone geografiche dal Marocco all’Asia centrale, rappresenta l’evento storico che si associa a questo senso di unità che fa da sostrato culturale dell’islam. Attraverso questo riferimento storico Moravia riesce a percepire con concretezza geografica e materiale l’unitarietà a livello mondiale dell’identità sottesa a quella cultura.
L’islam è inscindibile dalla dimensione geografica dei deserti. La peculiare caratterizzazione dei territori presso i quali le popolazioni arabe si sono stanziate o attraverso i quali si sono spostate, dà la misura fisica e tangibile di quell’universalità culturale che le qualifica nel mondo intero. La concezione religiosa di una divinità unitaria si lega, nell’islam, alla vuotezza della dimensione tangibile dei deserti. L’esistenza di un unico dio “invisibile e sempre presente” dà la misura della sostanza che riempie il vuoto fisico e le assenze materiali che il mondo presenta.
La condizione di assenza sul piano fisico richiama anche l’odio islamico per la figurazione e per la rappresentazione fisica e oggettiva. Dio non viene rappresentato visivamente ma se ne dà presenza attraverso un valore simbolico che sostituisce la dimensione figurativa. L’islam è caratterizzato da una significativa componente di astrazione cui si allude nel Corano. Un noto verso del libro sacro della religione musulmana recita così: “Noi faremo vedere loro il nostro segno sull’orizzonte”. L’assenza diventa misura, essa stessa, del proposito di conquista e dell’imposizione di una verità che sostituisca la vuotezza materiale e oggettiva della realtà.
Lo sforzo di immedesimazione universalistica della cultura islamica con il mondo fisico pare essere giunto, però, a un momento di drammatica interruzione. Moravia nota come l’universalità islamica si presenti adesso frantumata in «tanti Stati, nazioni e domini».
Il mondo arabo sta attraversando una crisi epocale determinata dalla diffusione di spinte nazionalistiche finalizzate a dare identità a enti statali propri. Si registra il proposito di realizzare, anche nell’ambito della cultura araba, quella stessa organizzazione istituzionale per realtà nazionali individuali che in Europa aveva sostanziato i moti rivoluzionari del diciannovesimo secolo.
Il confronto tra il mondo occidentale dell’Europa e quello orientale della cultura araba mostra subito però di basarsi su un’incoerenza. E Moravia lo fa notare con precisione quando sottolinea argutamente una differenza sostanziale che è la storia stessa a fornire con oggettività. Le culture nazionali d’Europa nascono da popoli che sono sempre esistiti e che hanno un’identità individuabile nella presenza, in ognuno, di una stessa lingua, di una stessa tradizione culturale e di realtà territoriali rilevabili all’interno di confini geografici ben precisi.
Le culture nazionali del mondo arabo dovrebbero invece nascere da un terreno che per secoli ha visto soltanto una cultura unitaria, nonché un’unica concezione religiosa che, vieppiù, si concretizza nell’idea di uno stato islamico strutturato per dare configurazione politica alla dimensione religiosa.
L’islam non è mai stato un continente di patrie come l’Europa, ma «una sola patria dilatata e astratta, smisurata e religiosa fatta a somiglianza dei deserti sui quali si era propagato». Il rischio, osserva correttamente Moravia, è quello di «creare tante piccole società piccolo borghesi, che attraverso il nazionalismo e il socialismo [porterebbero] senza volerlo non già a una nuova universalità islamica bensì al livellamento e all’uniformità e alla provincialità industriale del mondo tecnologico moderno».
Questo rischio, nella realtà dei fatti, si sta verificando nella nascita di società prive di “effettivi contenuti nazionali” ma “aggressive, intolleranti, totalitarie e irrequiete”. La dimostrazione di questa incapacità di dar costituzione strutturalmente organizzata a forme politiche moderne è proprio il ricorso alla dittatura presente ovunque nei paesi arabi.
L’articolo si conclude con il ritorno di uno sguardo che si allarga nuovamente verso il paesaggio circostante sul quale adesso sono calate le tenebre. In quel gioco di contrasti e di contrapposizioni radicali che pare caratterizzare il mondo islamico in cui non vigono le mezze misure, all’infuocata lucentezza del dì si alterna l’oscurità della notte illuminata da «stelle chiare, violente, freddamente fiammeggianti, quasi frenetiche».
Sole e stelle si avvicendano: l’islam ne dà un’interpretazione logica coerente con la sostanza culturale del suo credo. La luce del messaggio divino riempie il vuoto di una realtà che da sé non riesce a reggersi. Nessuna autonomia laica pare possibile in un mondo islamico che non si può immaginare retto soltanto dall’uomo.
Carissimo Davide ho apprezzato la tua presentazione del Moravia che, nell’incontro con il deserto, elabora delle riflessioni sull’islam e sulla presunta incongruenza con gli stati nazionali arabi o più correttamente arabofoni.
In realtà non solo l’islam, ma ancor prima l’ebraismo e il cristianesimo, sono stati concepiti nel deserto.
Dio dà a Mosè le Tavole della Legge sul Monte Sinai, che sorge nel deserto del Sinai, dove gli ebrei dopo la fuga dall’Egitto vagarono per 40 anni prima di insediarsi nella terra di Canaan, poi terra di Israele.
Dopo il battesimo, Gesù assume la sua missione divina digiunando per 40 giorni e 40 notti nel deserto della Giudea, dove viene tentato per tre volte da Satana.
Il Corano, secondo quanto vi è scritto, viene dato in modo violento dall’Arcangelo Gabriele a Maometto all’interno di una grotta sul Monte Hira, che sovrasta il deserto della Mecca, il più torrido della Penisola Arabica, dove Maometto si ritirava in totale solitudine a pregare Allah, uno dei 360 idoli pagani adorati nella sua città natale.
Per un altro verso, qualsiasi religione o ideologia, quando si afferma in una determinata area, si sovrappone alle preesistenti fedi e culture, traducendosi in realtà sociali diverse. L’islam è uno, ma i musulmani sono diversi. Quando dopo la sconfitta e la dissoluzione dell’ultimo Califfato islamico turco-ottomano nel 1923, i musulmani che vi risiedevano scoprono la nuova civiltà europea e riscoprono le proprie autoctone radici che la dittatura fanatica dell’islam aveva vietato.
La gestazione e la nascita dell’ebraismo, cristianesimo e islam avviene nel deserto, ma la loro crescita, maturità e evoluzione nel corso di millenni ha preso strade diverse.
Grazie Davide per averci offerto lo spunto per delle interessanti riflessioni.
L’esperienza del deserto del Sahara è unica: la sua vastità, la sua luce accecante, la sua notte fredda con un tetto stellato che ne fa da padrone, il silenzio ovattato arcano… Sì, i popoli del deserto potevano essere solo crudi aspri tenaci con un dio estremo pervasivo: ed ecco l’Islam. Ma il deserto ha dato i natali anche all’esatto contrario: tutti i profeti che, mettendosi alla prova nella solitudine del deserto, hanno tracciato la strada a Gesù Cristo.
È vero, ma la grandezza del Cristianesimo sta proprio nell’essersi costituito unico collante di una realtà politica variegata e disomogenea qual è quella dell’Europa. Credo che la differenza tra l’universalità islamica e quella cristiana sia da ricercare nella dimensione laica e umana della civiltà e del progresso razionale e scientifico, che il cristianesimo non nega ma anzi legittima.
Non credo che potrà mai esistere una universalità islamica, perché nega il libero arbitrio, funzione elettiva della nostra mente che alimenta l’espressione principe del cervello umano: la logica. Che nella Cristianità è stata coltivata grazie all’affiancamento del percorso escatologico al progresso razionale e scientifico, intreccio che ha portato Papa Benedetto XVI a ribadire con forza quanto scritto da Sant’Agostino: “Credo per comprendere, comprendo per credere”.
Certo Simonetta, proprio così. È il punto di incontro tra razionalità e credo l’elemento che contraddistingue la modernità del messaggio cristiano. L’islam, invero, un messaggio di universalità svilente lo proclama comunque proprio negando, come dici tu, quel libero arbitrio che invece costituisce il fondamento della civiltà occidentale: come a dire che gli uomini sono accomunati nella loro condizione di subordinazione al dio.