Insomma, questo caldo bruciante a sud, queste tempeste devastanti a nord, sono gli eccessi di un’estate come altre in passato o sono il segno di un drastico cambiamento climatico? Sono frutti bizzosi del caso e del maltempo o derivano da errori, disattenzioni e colpe umane? In altri tempi, mistici e messianici, avrebbero discusso se siamo alle soglie della fine del mondo oppure è uno di quei feroci ruggiti del solleone che periodicamente si affacciano nella storia climatica del mondo. Anche in quel caso, le catastrofi sarebbero state attribuite da alcuni ai peccati degli uomini, alla loro tracotanza, che i greci chiamavano hybris. E da altri agli imprevedibili capricci della natura. Stavolta, ad aggravare la scena si è messo il primo governo “di destra” della nostra repubblica, subito accusato di grave complicità nelle catastrofi, anzi di concorso esterno in calamità ambientali.
Proviamo a ragionare, non su basi scientifiche e nemmeno statistiche, dopo aver letto esaurienti spiegazioni e dettagliati paragoni col passato che conducevano a opposte conclusioni con dati alla mano.
Siamo in presenza di una termofilosofia, ovvero una filosofia del caldo, che s’intreccia a una specie di tirannia del meteo, altrimenti definibile come meteocrazia. Il precedente filosofico e teologico fu il terremoto che distrusse Lisbona nel 1755: c’è chi vide in quel terremoto una punizione divina (es. de Caussade) e chi trovò in quel sisma la prova dell’inesistenza di Dio (es. Voltaire). I primi furono detti oscurantisti, i secondi illuministi.
Ma torniamo al presente. Lasciamo fuori dal ragionamento le due ipotesi estreme, che sconfinano in due reati, non solo d’opinione: da una parte il negazionismo di chi nega il cambiamento climatico, e dall’altra il meteorrorismo, di chi specula sul terrore meteo per trarre profitto politico, mediatico, industriale, commerciale.
Quel che possiamo constatare in partenza è che viviamo ormai da alcuni anni sotto la Cappa dell’Emergenza: si passa senza soluzione di continuità da un’emergenza a un’altra, sanitaria e farmaceutica, bellica e militare, poi ecologica da inquinamento, ora la bolla meteocatastrofica, più altre sottoemergenze che accompagnano le macro-priorità.
Terrorismo mediatico quotidiano, psicosi di massa indotta dai media, anche per vendere l’informazione: impresa sempre più difficile, necessita di dosi emotive sempre più forti. Emergenza vuol dire sospendere alcune libertà e tanta spensieratezza, vuol dire accettare sacrifici e restrizioni sempre per il nostro bene, controllare e sorvegliare, produrre campagne massicce, prescrizioni e proscrizioni di massa, più investimenti adeguati. E si tratta di additare alla popolazione un capro espiatorio su cui scaricare la colpa della situazione col relativo carico di paure, invettive e rancori.
Concorre a questo mutato “clima”, in ogni senso, la nostra mutata percezione e la nostra mutata soglia di sopportazione, molto più ridotta nel tempo, non solo a causa dell’uso massiccio di aria condizionata. La stoica sopportazione del caldo o delle intemperie nelle società antiche si è assai assottigliata in una società fisicamente e psichicamente fragile, delicata, benestante, un po’ nevrotica, fin troppo accessoriata e foderata di mediazioni. Ogni evento fuori controllo diventa estremo, biblico. E in una società di vecchi soffriamo di più gli eccessi climatici.
Ciò detto, è innegabile che qualcosa di diverso stia accadendo nel clima: non si tratta più di citare Plinio che già duemila anni fa diceva che sono finite le mezze stagioni. C’è qualcosa che nella nostra esperienza di vita, non avevamo vissuto: o per dir meglio, ricordiamo tanti eventi atmosferici avversi, di ogni tipo; ma si è intensificata la frequenza, è aumentata e accelerata. Per fare un paragone filosofico e umanistico, il clima sta mutando con la stessa velocità con cui ci stiamo disumanizzando, in vari ambiti, perdendo la consuetudine di mondi, visioni, morali, religioni e culture con una velocità impressionante. Qui fa capolino una visione metafisica della decadenza, ma in questa sede atteniamoci alla realtà.
Detto questo, è doveroso e urgente cercare di far qualcosa per prevenire, arginare, salvare il salvabile. Dunque non si tratta di abbandonarsi al liberismo teologico e climatico, e lasciar fare il corso della Natura; qualcosa bisogna fare per frenare le emissioni di gas nocivi, inquinamento, la moria di vegetazione e animali, e così via. E bisogna essere il più possibile tempestivi e incisivi. Riconosciuta la necessità di interventi, aggiungerei però due considerazioni intrecciate. La prima è che le possibilità che ha l’uomo di modificare l’ecosistema, l’equilibrio geotermico e il clima sono assai relative, ridotte; la nostra incidenza non va esagerata, siamo dentro processi più grandi che dipendono da fattori più vasti. E anche i fattori umani, a cominciare dal sovraffollamento del pianeta come mai era accaduto, sono quasi insormontabile, non possono essere risolti in modo efficace e razionale. Dunque non attribuiamo troppi poteri all’uomo. E qui torniamo alla filosofia del nostro tempo, anche in senso meteo: da anni rifiutiamo l’idea di evento catastrofico, di incidente, di calamità naturale. Cerchiamo dietro ogni evento una responsabilità, dei colpevoli per dolo, incuria o malvagità; sembra quasi che ogni morte sia causata da un incidente, un disguido, una mancanza di precauzione e prevenzione, insomma sia sempre responsabile qualcuno. Convinciamoci di una cosa: la prima causa, assoluta, di decessi è che siamo mortali. La morte non è un errore ma un destino. Non è colpa tua, mia, loro, della Meloni. Il fatto è che siamo mortali.
(Panorama, n.33)
Ma cosa intenderebbe Veneziani per affollamento del pianeta, considerando che la maggior parte non è abitato…?
Ma potrebbe essere prevalentemente l’intenso traffico aereo, l’affollamento satellitare, i mega impianti industriali, gli esperimenti bellici che ci nascondono, a sensibilizzare significativamente gli eventi atmosferici…?