Il Festival di Sanremo 2023 lo ha vinto Marco Mengoni con “Due vite”. Al secondo posto Lazza, terzo Mr. Rain, quarto Ultimo e quinto Tananai. La vittoria alla 73esima edizione era annunciata e ci sembra più interessante parlare di chi ha perso.
Chi ha perso il Festival della canzone italiana?
Hanno perso in molti: il decoro, il buon gusto, l’eleganza, il rispetto, la canzone, la tradizione del bel canto, un tempo vanto del nostro paese. Più che il Festival della canzone sembrava il frutto di una retata della buon costume sulla Palmiro Togliatti.
Più che una gara canora è sembrata una corsa a chi riuscisse a meglio esprimere il cattivo gusto, la volgarità, il peggior testo e l’incapacità di cantare.
Si chiama Festival della canzone italiana. E’ sembrato piuttosto il Festival di un certo tipo di canzone italiana. Mono genere.
I criteri per essere selezionati probabilmente non sono la bravura vocale o la bellezza del brano ma: il numero di tatuaggi per centimetro quadrato di pelle, multisessualità, colore politico, colore dell’epidermide e livello di stravaganza intesa come volgarità.
I testi delle canzoni devono essere il più possibile simili, per sintassi e profondità di argomenti, ai pensierini (forma breve di tema) che ci facevano scrivere in quinta elementare alla scuola Giuseppe Parini di Piazza Capri nel 1979.
Ma soprattutto qualità vocale e capacità di articolazione (cantata e parlata) al di sotto del livello richiesto a una cassiera del supermercato, quando al microfono avvisa che “un bambino si è perduto e aspetta i propri genitori alla cassa“.
Più che una rassegna di canzoni sembrava il gay pride in seno alla Festa dell’Unità.
I partecipanti alla gara canora, almeno il 95 %, sembravano un gruppo di ragazzotti dopo una partita di calcetto che, assieme alle proprie fidanzatine, vanno a cena a un ristorante cinese sulla Casilina. E nel quale tra un pollo alle mandorle e un maiale in agrodolce si canta (tutti inspiegabilmente con marcato accento milanese) al Karaoke, sotto l’effetto di qualche bottiglia di birra made in Pechino.
Non sono ammessi al festival gli artisti dalla bella voce, i brani orecchiabili, partecipanti che siano al contempo bianchi di pelle, eterosessuali, cattolici e di centro-destra. Tutto intorno, un clima di dichiarata e forzata inclusività.
C’è stato anche chi ha strappato in diretta la foto di un membro dell’attuale governo perché da ragazzo ha commesso la stupidaggine (chi non ne ha commesse?) di vestirsi da ufficiale nazista (discutibile e di cattivissimo gusto) che sarebbe un po’ come se si fosse vestito da cowboy e avesse sparato per gioco contro un amichetto in costume da indiano e per questo invitato a dimettersi.
Ed è davvero curioso costatare che nel tentativo esasperato di essere i più inclusivi possibile e di dar risalto a quelle che vengono da taluni considerate delle minoranze da valorizzare a tutti i costi , rimangano esclusi tutti gli altri. Cosicché per trovare un cantante con una bella voce, una bella canzone, vestito in maniera semplice e che non ostenti per forza i propri gusti politici e sessuali o che non sventoli la bandiera arcobaleno, abbiamo dovuto attendere il trio Albano-Ranieri–Morandi, i quali ci hanno ricordato, malgrado la veneranda età, come e cosa si dovrebbe (almeno anche) cantare al Festival di Sanremo.
Ma questi giovani sventolatori della bandiera arcobaleno, che dovrebbe ricordarci che la bellezza sta in tutti i colori, hanno finito per offrire uno spettacolo che al contrario è all’insegna di un solo colore. Il loro.
Ovviamente anche quest’anno ci siamo sorbiti il pistolotto sul razzismo da parte di un italiana di colore che definisce gli italiani razzisti. La verità è che c’è chi lo sta diventando, proprio perché stanco di essere tacciato d’intolleranza razziale e perché non ne può più di questa retorica fine a se stessa.
Sono arrivati addirittura a censurare la ninna nanna più famosa d’Italia. Non credevo alle mie orecchie quando ho sentito Il buon Gianni Morandi intonare “Ninna nanna, ninna oh, questa bimba a chi la do, io la do al lupo nero che la tiene un anno intero!” . Ma come “lupo nero”!? Il testo originale, quello che mi cantava mia nonna, parlava di un uomo nero.
Che forse abbiano pensato che questa canzoncina per far addormentare i bambini parlasse di un “negro cattivissimo” nascosto nell’armadio? E’ come se Edoardo Vianello cantasse “siamo i Watussi gli altissimi uomini di colore” o che l’Istituto Geografico decidesse di cambiare il nome del Montenegro in Montedicolore. Non se ne può più.
Dei 28 partecipanti una piccolissima percentuale supera i 40 anni e canta delle canzoni intese come melodia, orecchiabilità e testo gradevoli alle orecchie e all’anima.
Paola e Chiara si sono prodotte in un salto mortale carpiato all’indietro e sono passate dallo stile “ragazze di Non è la Rai” a milfone (senza offesa, sono due bellissime donne) proponendo un brano che sembrava un medley delle canzoni di Raffaella Carrà con tanto di Carramba Boys che saltellavano e ballavano attorno a loro tra i quali, ovviamente, c’era per forza un ballerino nero.
Lo spettacolo indecoroso offerto da Blanco il quale si è improvvisato Ritchie Blackmore de noantri, devastando il palcoscenico neanche fosse a Woodstock, e che sarebbe stato probabilmente cacciato a pedate nel sedere da Pippo Baudo al contrario di Amadeus, che ride anche in presenza di drammi inenarrabili, che lo ha invece coccolato come una mamma perdona il proprio bimbo dopo una piccola e innocente marachella.
C’era anche il figlio segreto di Marilyn Manson e Cristiano Malgioglio in un tentativo squallido di imitare lo straordinario e ambiguo, ma al contrario mai volgare, Renato Zero.
Non è il festival della canzone italiana perché non tutti gli italiani ascoltano questo genere musicale e se l’Italia è un paese di vecchi, così almeno ci dicono i dati Istat, non si può pensare che il pensionato di Vigevano, il muratore di Bergamo, l’insegnante di Campobasso o il capostazione di Fossato di Vico ascoltino solamente le canzoni dei figli di Tiktok e dei talent show.
È un fenomeno tutto nostro perché basta varcare le Alpi e arrivare in Francia per scoprire che i ragazzi ascoltano, sì, anche il rap e il trap, ma che esiste una realtà di giovani dalle voci straordinarie, portabandiera del bel canto e delle grandi melodie e che vantano un successo trasversale in termini di fascia di età.
Per non parlare del Nord America. Noi non abbiamo, a differenza loro, una Billie Eilish, una Taylor Swift, una Rihanna, una Olivia Rodrigo o un Justin Bieber, tanto per citarne alcuni.
Per ascoltare canzoni di qualità, grandi melodie e belle voci ci dobbiamo affidare a pochissimi concorrenti (Modà, Grignani, Oxa, Mengoni, Giorgia).
I “Big” di oggi, nuovi “schiavi” del canto. Una importante figura dello spettacolo, mi spiegava che questi giovanissimi debuttanti, alcuni dei quali vengono addirittura classificati come Big solo perché in un anno hanno ottenuto milioni di visualizzazioni e di click sulle varie piattaforme musicali come se avessero venduto milioni di copie, sono i nuovi “schiavi” del canto.
Sono allevati in provetta nei vari talent show dai quali poi vengono partoriti e lanciati attraverso il web. L’aspettativa di vita “artistica” è di pochi anni, durante i quali il 90% dei ricavati dalle loro esibizioni, ospitate o quant’altro finisce nelle tasche (giustamente visto che di talento, i più, non ne hanno) dei produttori e delle case discografiche.
Questi giovanissimi senza gavetta, e con pochissimo (e male) da dire, guadagnano mensilmente, alla fine, poco più di quello che avrebbero ottenuto con il reddito di cittadinanza. Una manciata di popolarità, un po’ di pubblicità e poi spariscono per sempre. E’ sparito anche un ottimo cantante, figlio anch’egli dei talent. Stiamo parlando di Valerio Scanu che in quanto a voce ne aveva da vendere. Li scelgono apposta con pochissimo talento affinché non si ribellino al sistema. Chi ha talento ed è sfruttato finirebbe per opporsi e imporsi.
Una volta spremuti ed essendo intercambiabili (basta prendere a caso una delle loro canzoni e farla cantare ad uno qualunque della scuderia, che risultato è lo stesso ) vengono rottamati e sostituiti da carne fresca.
Un tempo gli schiavi della voce (e che voci!) erano i neri che lavoravano nei campi di cotone le cui schiene erano segnate dalle frustate. Oggi i nuovi schiavi del canto, di voce non ne hanno e le frustate Invece di finire sulla loro pelle arrivano dritte alle nostre orecchie.
Pare che durante la prima serata di Sanremo, una casalinga di Rovigo, pur di convincere il marito che seguiva eccitatissimo le movenze sensuali della bassista dei Maneskin a spegnere il televisore, dopo 30 anni di matrimonio e 15 anni di astinenza sessuale, lo abbia trascinato in camera da letto e pur di far cessare il supplizio Sanremese si sia prodotta in posizioni erotiche contemplate neppure dal Kamasutra.
In fondo questi ragazzini mi fanno tenerezza. Dico sul serio. Ma adesso ho bisogno di una bella canzone. Di un po’ di eleganza. Vado a mettere su un disco di Fabio Concato.
https://www.romait.it/sanremo-vince-mengoni-con-due-vite-ma-chi-ha-perso-il-festival-2023.html
Bravo Marcello, condivido tutto quello che hai detto e sottoscrivo in pieno il tuo ragionamento. Hai colto con grande chiarezza e con impeccabile onestà intellettuale il punto focale della questione.