Milano. Una scuola elementare della periferia, negli anni 90. Gli scolari assistono ad uno spettacolo organizzato in occasione del carnevale ambrosiano.
Inviati dal Comune di Milano, compaiono sul palcoscenico due attori che vestono i costumi di Meneghino e della Cecca, le due tradizionali “maschere” milanesi. Gli attori salutano, festosi, i bambini e, parlando in dialetto milanese, li invitano a cantare con loro. Intonano: «O mia bela madonina, che te brilet de lontan, tuta dora e piscinina, …». I bambini li guardano muti e perplessi: nessuno sa quella canzone e nemmeno parlano il dialetto.
Gli attori capiscono al volo e cambiano repertorio. È un mio ricordo di oltre trent’anni fa, perché io ero il dirigente di quella scuola. Già allora i milanesi autentici nelle periferie di Milano eran pochi. Tra italiani d’ogni provenienza regionale, cresceva ogni anno la presenza di stranieri immigrati.
Oggi la situazione è ancor più complicata. Sudamericani, cinesi, magrebini, egiziani, indiani, rumeni affollano le classi. Discontinua la presenza di rom. Nella città sono censite centinaia di etnie. Altro che dialetto: nelle scuole ai bambini stranieri si deve spiegare, all’occorrenza, pure cos’è il carnevale, o il Natale, ammesso che sappiano già l’italiano. Culture, tradizioni, dialetti e identità possono dissolversi nell’oblio.
Il cosiddetto “meticciato”, ammesso e non concesso che questa definizione sia proponibile nel nostro caso, ha i suoi elevati costi sociali e soprattutto umani. I problemi sono molti e la scuola ne affronta di enormi. E così pure la società. Nei quartieri periferici la convivenza, all’apparenza tranquilla, è invece complicata.
C’è chi si integra, chi rifiuta d’integrarsi e chi solo s’adatta all’ambiente per esigenze stringenti di sopravvivenza e di lavoro, quando c’è. Molti s’arrangiano, ripiegando su attività più o meno illecite. Si formano, silenziosamente, enclave e comunità separate dal contesto. Nemmeno i riti religiosi uniscono: i luoghi di preghiera fanno riferimento più ai paesi di provenienza dei fedeli che alle fedi di appartenenza.
La disgregazione sociale trova riscontro in situazioni di degrado urbano. Nascono episodicamente nelle seconde e terze generazioni di immigrati, manifestazioni di auto-riconoscimento identitario contrapposto, talvolta verso la popolazione autoctona e più spesso in forma di conflitto con altri gruppi etnici di immigrati. Si sottovaluta, purtroppo, il razzismo interetnico, tra stranieri. Lo sradicamento dai paesi, e dai contesti socioculturali di provenienza, nonché il difficile inserimento nella nuova realtà hanno effetti talvolta nefasti. In Francia, Svezia e Gran Bretagna lo sanno drammaticamente meglio di noi. Gli stupri in piazza Duomo a Milano, la notte di Capodanno 2022, segnalano che la situazione è critica. Quale il rimedio per evitare che la festa degenerasse anche nel Capodanno del 2023? Non sì è fatta la festa. Una risposta sbagliata.
È questo il “meticciato”? Quale società nascerà da questa situazione? Nelle città gente di tutto il mondo si incontra. Anche la formazione di coppie “miste”, formate da due persone di etnia diversa, per quanto non statisticamente prevalenti su coppie etnicamente omogenee, è un dato di fatto del tutto naturale, generalmente accettato, conseguenza di occasioni di incontro, di percorsi imprevedibili della vita e dell’umano sentire. Persone assai diverse per caratteri somatici, colori di pelle, lingue e culture quasi inconfrontabili, talvolta avvertono proprio nelle più accentuate differenze soggettive un elemento ulteriore di attrazione, di interesse reciproco, di curiosità anche culturale e spirituale, come quella che muove e motiva un viaggiatore in terre sconosciute.
Fra noi c’è chi ha sperimentato l’emozione di trovarsi, o vivere, tra stranieri che non capiva, ma che avrebbe voluto intendere e interpellare, per bisogno assoluto di comunicare e vedere oltre l’ostacolo della differenza, di imparare quel che non sapeva e nemmeno immaginava.
Analoga esperienza può portare alla nascita di una coppia etnicamente “mista”. E così l’antica saggezza contadina del proverbio “moglie e buoi dei paesi tuoi”, si conferma come un consiglio ragionevole, ma non come un confine invalicabile. Forse, perché “il paese tuo” oggi s’è allargato o il mondo “s’è ristretto”.
Quale che ne sia il motivo, i matrimoni interetnici, per quanto statisticamente siano a rischio di fallimento, non rappresentano un problema sociale. Il problema sta nel modo in cui si percepisce il fenomeno della fusione interetnica, sul danno che deriva dal chiamare qualsiasi cosa col nome sbagliato, fuorviante o strumentalizzato a fini politici. E ritorno al tema del “meticciato”, termine usato a sproposito, anche perché è assurto a mito ideologico di presunto valore antirazzista.
Affrontiamo il nocciolo della questione. Tanto per cominciare, una coppia mista non è né “meticcia” né espressione di “meticciato”, ma è un puro e semplice dato di umanità. Oltre le coppie miste, il discorso vale per la società multietnica e per la fusione interetnica.
La riflessione nasce dall’aver assistito ad una manifestazione studentesca per le vie di Milano. Apre il corteo uno striscione che inneggia a “Milano meticcia”. E come spesso accade le corbellerie sono scritte a caratteri cubitali. Vorrebbe essere uno slogan antirazzista. Ma chiunque può coglierne l’incongruenza.
Gli insegnanti sanno che l’errore è funzionale all’apprendimento e non muovo alcun rilievo al diritto degli studenti di imparare anche attraverso l’errore. Trovo irritante invece una delle tante strumentalizzazioni ideologiche che gli studenti sono talvolta indotti a subire da chi, credendo di liberarli dai pregiudizi veri o presunti, di fatto ne condizionano il percorso intellettivo verso un pensiero aperto e critico, cui spesso gli slogan non sono affatto funzionali. Peggio è se gli slogan contengono errori grossolani, soprattutto in riferimento all’uso irrinunciabilmente corretto della lingua italiana, nonché all’esattezza scientifica delle nozioni connesse.
Se vogliamo prenderci la briga di verificare i significati di “meticcio” e “meticciato” su enciclopedie aggiornate e dizionari recenti della lingua italiana, possiamo rilevare che i termini in questione sono strettamente connessi al concetto di razza. Il “meticciato”, in lingua italiana, è un dato razziale, e non si può negare. Se si tratta di animali, “è meticcio” il soggetto fecondo, cioè atto a generare, figlio di genitori di “razza diversa”. I testi più “datati” applicano la stessa definizione di meticcio ad un essere umano generato da un padre e una madre di “razze diverse” e forniscono esempi di popolazioni meticce o come tali tradizionalmente definite.
I testi di più recente edizione, mentre confermano sotto l’aspetto linguistico la definizione sopra riportata, aggiungono come postilla o affermano, implicitamente o esplicitamente, che oggi il termine “meticcio” riferito agli esseri umani è errato o, quantomeno, superato: la divisione degli umani in razze differenti è considerata da oltre cinquant’anni scientificamente inesatta in favore della riconosciuta appartenenza degli umani ad un’unica “razza”, o meglio, specie non divisibile in razze.
Oltretutto parlar di razze umane comporta errori noti e purtroppo ricorrenti. «Se gli uomini si differenziano fra loro per la varietà dei caratteri culturali, per le caratteristiche fisiche, è invece impossibile una classificazione dell’umanità in razze» (Da “Il Corriere UNESCO”, 8-9- 1975).
La ricerca fa progredire la scienza e le nuove conoscenze influiscono anche sull’evoluzione della lingua. Personalmente ho verificato i citati termini su più fonti per sottoporre alla prova del dubbio quella che era da tempo una mia convinzione, che qui esplicito: poiché meticcio e meticciato sono termini che indicano il risultato di fusione o incrocio di razze diverse, la definizione di uomo “meticcio” non ha senso. Genitori della stessa “razza” non danno luogo ad alcun meticciato, quindi l’umanità non genera meticci. Punto. Un contesto umano multietnico o interetnico è, semmai, misto. E non è una questione nominalistica, perché se il concetto di razza fosse, e fosse stato, solo una questione nominalistica irrilevante non avremmo avuto né l’Olocausto né i genocidi tuttora in atto.
Meticcio e meticciato sono definizioni connesse alla razza, non all’etnia, né alla religione o alla cultura. Quindi è una corbelleria pure parlar di “meticciato culturale”. E’un tentativo infelice di salvare il termine “meticcio”, nobilitandolo in rapporto alla cultura, che è invece un dato eminentemente umano. La cultura non è statica: è l’azione intellettuale continua di “coltivare” il pensiero, le sue facoltà e le sue espressioni. Tale è la cultura in senso lato, citata al singolare, mentre quelle che chiamiamo abitualmente “culture”, al plurale, spesso non sono molto più che usi, costumi, particolarità etniche, tradizioni, scuole di pensiero, ambiti culturali specifici, manifestazioni locali o temporali o etniche di espressioni artistiche, intellettuali o religiose, come elementi costitutivi di una specificità culturale ascritta e circoscritta a ben definiti riferimenti umani e territoriali. E “culture”, al plurale, vuole evitare sottintese discriminazioni.
La “cultura” intesa come valore universale, senza preclusioni, confini, barriere, rigidità, come elaborazione continua di pensieri diversi e percorsi di pensiero a confronto, è altro. Il confronto interculturale produce evoluzione e progresso, talvolta anche attraverso fasi di “contaminazione”, ma non “meticciato”. In assenza di confronto interculturale, laddove prevale la sopraffazione dovuta all’atteggiamento suprematista di una presunta “cultura” sulle altre, si determina la scomparsa e l’oblio, per sopraffazione, di idiomi, tradizioni, specificità culturali, soprattutto a seguito di squilibri interetnici, dove gruppi sociali sono messi conflittualmente in minoranza e sospinti verso l’estinzione.
La storia e l’archeologia ci mostrano come culture e civiltà avanzate vennero sopraffatte e ridotte al silenzio da incontenibili espansioni di domini barbarici. E il fenomeno si ripete. Anche in questo caso l’integrazione non può prescindere da un rapporto numerico fra i soggetti interessati e non solo dal raffronto qualitativo dei relativi livelli di civiltà. In una società civile i processi di cambiamento, di qualsiasi tipo e origine, immigrazione compresa, si governano nell’ambito di una partecipata condivisione democratica, ma non si subiscono.
Tornando però ad una riflessione esplicitata all’inizio, circa il danno che deriva dal chiamare una cosa qualsiasi col nome sbagliato o strumentalizzato a scopi ideologici, vorrei concludere richiamando l’attenzione sull’aspetto più inaccettabile e pericoloso della questione.
Lo slogan della “Milano meticcia” vorrebbe sottolineare la realtà multietnica complessa della metropoli lombarda, dovuta ad un’immigrazione che si vuole far accettare, ma non governare, ad onta dei problemi che comporta.
Per ignoranza linguistica, scarsa chiarezza concettuale e connessi limiti culturali, finisce però per esaltare il “meticciato”, termine intrinsecamente razziale e pure improprio, come se fosse una condizione umana o sociale implicitamente preferibile, per non dire migliore, o superiore, rispetto a ciò che meticciato non è. Esaltarlo come migliore è l’errore peggiore: è una valutazione razzista.
Purtroppo ho sentito esaltare il “meticciato” umano anche da presunti intellettuali, sedicenti progressisti. Il che fa pensare che il razzismo, anche quello non percepito o inconscio, non abbia colore politico, oppure che ce ne sia purtroppo d’ogni colore. Credo che ne abbiamo tutti abbastanza di “razze elette” o di superiori razze “pure”. O implicitamente “preferibili” se meticce. L’umanità non ha razze. Una riflessione che non dovrebbe richiedere ulteriori chiarimenti, rivolta anzitutto al mondo della scuola, come del resto ad ogni ambito civile del vivere umano.
Vittorio Zedda